La famiglie e le leggi inadeguate

La famiglie e le leggi inadeguate

 

In ogni società civile, fondata cioè sul diritto ( “ubi societas ibi jus) “laddove c’è una società, c’è un ordinamento giuridico”, sono necessari leggi, regolamenti e varie altre norme fra cui quelle riunite e codificate in Testi Unici, Codici, che regolino, in particolare i rapporti fra i consociati: persone, gruppi, istituzioni, Stato, costituendone l’ordinamento giuridico. Queste norme, per loro natura, dovrebbero tendere a migliorare e a rendere più solidi e stabili i rapporti tra le varie componenti della società. Purtroppo non sempre ciò accade. Sempre più spesso, a causa di pressioni provenienti da vari gruppi di potere o da interessi specifici, vengono emanate, ad esempio, leggi che non solo non migliorano i rapporti fra le persone o fra i gruppi sociali, ma spesso accentuano i contrasti, li esaltano e li inseriscono in una spirale perversa di instabilità e distruttività.

Anche per quanto riguarda la famiglia, le norme dovrebbero avere lo scopo di rendere più funzionale questo istituto naturale che è alla base della società, come dovrebbero riuscire a rendere propositivo e ricco il rapporto fra i suoi componenti, fra questi e le istituzioni, fra cui lo Stato.

Quando ciò non avviene, e tutte le statistiche stanno là a dimostrarlo, siamo in presenza di disposizioni non funzionali e non adeguate al loro compito.

Una norma dovrebbe essere giudicata dagli effetti a breve, media e lunga scadenza che determina e non dall’ideologia che la informa o per la quale è nata.

La famiglia è un’istituzione primaria, in quanto nasce naturalmente e storicamente prima di ogni altra istituzione: è dall’essenza e dall’esistenza della famiglia, proto cellula di ogni società, che nascono da una parte lo Stato, come ordinamento, con leggi che lo governano e con cui esso, a sua volta, le impone all’osservanza di tutti i consociati, e dall’altra, la o le Chiese che affiancano lo Stato, e non viceversa. Conseguentemente, le leggi che riguardano la famiglia, questo pilastro fondamentale dello Stato, dovrebbero essere poche e chiare ma, soprattutto, dovrebbero essere attente a proteggerne l’autonomia, l’integrità, la stabilità e il buon funzionamento,

Sicuramente non dovrebbero essere varate delle leggi che inseriscono meccanismi perversi nei rapporti tra i sessi, tra i coniugi, tra questi ed i loro figli, tra la famiglia e le altre istituzioni.

Negli ultimi decenni invece si è voluto imbrigliare le famiglie in un gran numero di leggi e di sentenze che pretendono di dirigere, limitare, organizzare e gestire ciò che invece dovrebbe essere di esclusiva competenza delle famiglie stesse.

Intanto non dovrebbe essere di competenza legislativa stabilire i ruoli o la mancanza di ruoli che i due coniugi devono avere tra loro.

Come fa, ad esempio, a funzionare un’istituzione così complessa e difficile da gestire come una famiglia, nella quale ogni giorno si intrecciano necessità, bisogni e scottanti problemi affettivi, economici, relazionali e sociali se per legge, al contrario di tutte le altre istituzioni, al suo interno non vi devono essere responsabilità diversificate né un unico coordinamento?

Quando vi sono dei ruoli e delle competenze diverse, come quando il marito è responsabile del mondo dell’economia, del lavoro e dei servizi, mentre la moglie è responsabile del mondo affettivo relazionale, la sovrapposizione di competenze è ridotta al minimo. Essendo poi già definito chi è il responsabile ultimo della famiglia, anche quando vi sono delle idee differenti su determinati, argomenti il sapere e l’affidarsi per queste decisioni all’unica figura che ne ha la titolarità, allenta molto la tensione e sopisce l’aggressività reciproca.

Cosa facciamo, infatti, tutti noi, ogni giorno ed in migliaia di uffici o istituzioni, quando nel lavoro abbiamo idee diverse rispetto al nostro capo,(e tutti abbiamo un capo!)? Esponiamo, anche con foga le nostre idee e le nostre riflessioni cercando di convincerlo, con gli argomenti migliori della nostra tesi ma poi, se abbiamo il dovuto rispetto per i vari ruoli, lasciamo la scelta definitiva alla sua responsabilità e torniamo serenamente o al massimo con qualche mugugno, al nostro solito lavoro. Soprattutto, e questo è importante, non ci sentiamo minimamente offesi perché lui non ha accettato le nostre idee, né nutriamo propositi di vendetta nei suoi riguardi.

Non era difficile prevedere quanto sarebbe successo nel momento in cui, con la riforma del diritto di famiglia, sulla spinta di un equalitarismo e liberalismo sessantottino, e per accontentare insieme sia le spinte femministe, sia quelle del mondo economico, si volle di fatto eliminare il ruolo di capo famiglia. Mettere, infatti, per legge, al vertice di questa fondamentale istituzione due persone: il padre e la madre, il marito e la moglie, con “potestà genitoriale” dando cioè ad entrambi pari funzioni, pari peso nelle decisioni familiari, pari responsabilità, ha significato praticamente non mettere nessuno a capo della famiglia.

D’altra parte, perché non provare a mettere, per legge, a capo di ognuna delle istituzioni pubbliche o private che siano, un uomo ed una donna con pari responsabilità e pari funzioni, in modo tale che vi siano due Capi dello Stato , due Presidenti del Consiglio, ma anche due presidenti della Banca d’Italia e così via fino a due Direttori dirigenti in ogni scuola, o due Parroci in ogni parrocchia? Il motivo per il quale non viene attuata questa riforma “democratica” è molto semplice: le istituzioni, dalla più grande alla più piccola, non potrebbero in alcun modo funzionare.

Il vertice, per sua definizione è definito da un punto e non da due, e così il concetto di capo e responsabile rimanda ad una sola persona e non a due. Per Mills 1953 e Strodtbeck 1954 citati da Lidz, infatti, “I piccoli gruppi, anche formati da tre persone, tendono a dividersi in diadi che escludono altri da rapporti e accordi significativi, e indeboliscono e disgregano l’unità del gruppo. Per ridurre al minimo queste tendenze disgregatrici è necessaria l’esistenza di strutture, di norme, e di una leadership.”

Nelle famiglie che non hanno una leadership avviene quanto descritto. Il conflitto provoca delle alleanze: un genitore si allea con tutti i figli contro l’altro genitore; un genitore con i figli dello stesso sesso, contro il genitore ed i figli dell’altro sesso; o al contrario nascono alleanze con il genere opposto, il padre con le figlie femmine, contro la madre alleata con i figli maschi. Ma le alleanze possono coinvolgere amici e parenti dell’uno e dell’altro in un gioco al massacro.

Tra l’altro la responsabilità condivisa viene erroneamente esaltata come “sistema democratico” all’interno della famiglia, mentre la situazione precedente era bollata come “sistema autoritario o tirannico.” E’ noto che il concetto di democrazia (governo del popolo) non stabilisce affatto che tutte le norme debbano essere accettate e rese esecutive dopo che tutti i cittadini si siano pienamente convinti della loro bontà. Anche nelle più antiche democrazie assembleari dei piccoli villaggi valeva il concetto di maggioranza delle decisioni e non di unanimità dei consensi. D’altra parte, quale maggioranza vi può essere quando le persone a cui si rimandano le decisioni sono solo due che, tra l’altro, hanno per loro natura modi notevolmente diversi di vedere e vivere problemi, realtà ed esperienze?

Famiglia democratica non significa mettere ai voti le decisioni o instaurare un sistema permissivo di libertà caotica, ma significa assumersi delle responsabilità nei confronti dei bisogni di ogni persona presente al suo interno, ma anche responsabilità nei confronti della funzionalità dell’istituzione stessa. E questo naturalmente esige limiti e sacrifici individuali nella prospettiva del bene comune.

Una legge che imponga, coma sopra si è detto, una titolarità paritaria di potestà, sembra fatta apposta per alimentare nelle coppie una conflittualità permanente che nel tempo diventa sempre più grave, con evidenti ripercussioni nei confronti delle singole persone, della famiglia e quindi della società.

Per affrontare i problemi che quotidianamente si presentano e per risolverli, viene quasi sempre esaltata l’importanza del dialogo. Attraverso il dialogo la coppia dovrebbe riuscire a prendere tutte le decisioni che sono utili alla vita familiare. Senza negare l’importanza del dialogo e del sereno confronto, se non vi sono diversi settori di competenza e se non vi è un capo che alla fine prenda su di sé la responsabilità delle decisioni più importanti ed incisive, giacché tra due persone non è possibile un sistema a maggioranza, si è costretti a utilizzare almeno una delle seguenti metodologie decisionali.

La decisione viene attuata alternativamente dai due coniugi.

“Una decisione la prendo io, una la prendi tu.” Questo modo di operare non diminuisce il conflitto e la confusione nella vita di famiglia. Non tutte le decisioni, infatti, sono di uguale importanza o hanno le stesse conseguenze per l’economia della famiglia o della coppia. “Che senso ha che tu faccia decidere oggi a me se, per uscire di casa, è bene che nostro figlio metta il cappottino o la giacchetta, dal momento che tu la volta precedente hai deciso, cosa molto più importante per la vita affettiva del bambino, che era meglio iscriverlo all’asilo nido, decisione che io disapprovavo e continuo a disapprovare?” “Che senso ha che io debba decidere se comprare un aspirapolvere oppure no mentre tu hai deciso se comprare o non una nuova auto?” Questa metodologia decisionale rischia di portare la dissociazione di tipo schizofrenico nell’ambito della gestione familiare. Se c’è da decidere se il figlio debba o non andare alla gita scolastica ed è il turno della madre, questa deciderà per il sì, quando poi anche la figlia chiederà di andare alla gita scolastica ed è il turno del padre di decidere, questi, contrario per principio alle gite scolastiche deciderà, ad esempio, per il no, creando tra i figli disparità e sconcerto. Se poi, piuttosto che a discutere in famiglia vi immaginate in un’auto e le decisioni su quale strada prendere nei vari incroci viene presa alternativamente dall’uno o dall’altro coniuge, non è difficile pensare in quale direzione e quale tragitto percorrerà o, meglio, dove andrà a finire questa povera auto con tutti i suoi sfortunati occupanti.

Un’altra possibilità operativa è quella di trovare per ogni decisione una via di mezzo tra la visione dell’uno e quella dell’altro.

Per quanto riguarda questa modalità, quale sicurezza vi è che la decisione intermedia sia la migliore che poteva prendere la coppia? Immaginate, e non è difficile farlo, due genitori che non trovano un accordo sull’orario di rientro serale dei figli: il padre, moderno, comprensivo e aperto, preferirebbe che fosse il figlio, ormai diciottenne, a decidere quando ritornare e casa. Quindi preferisce accettare che di solito egli si ritiri verso le cinque- sei del mattino, quando hanno chiuso le ultime discoteche e sono stati appena sfornati i cornetti caldi alla crema, necessari per fare colazione prima di rientrare a casa.

La madre, molto più attenta ai rischi materiali e morali ai quali un figlio può essere esposto durante le ore notturne, è invece dell’idea che questi debba tornare presto in famiglia, non più tardi delle nove di sera. Se si attua la metodologia di cui sopra, si dirà al figlio che può tornare tranquillamente all’una di notte. In questo modo resteranno sicuramente scontenti il figlio, il padre e la madre. Ma poi, siamo certi che questa sia la decisione migliore?

Tra l’altro, se la coppia accetta questa regola della scelta mediana, il marito, la moglie o entrambi, si faranno rapidamente furbi, cercando di partire da posizioni molto distanti per potere trovare poi una via di mezzo, più vicina ai propri desideri.

Un’altra modalità potrebbe prevedere che tutte le decisioni del giorno vengano prese alternativamente dai due coniugi.

Come dire: “Un giorno decidi tu, un giorno decido io.” Questa modalità può tradursi in pratica in “Un giorno decido io di comprare un’auto di grossa cilindrata, il giorno dopo decidi tu di vendere la stessa auto perché pensi che non ce lo possiamo permettere.” Questa metodologia è la stessa utilizzata in politica quando il governo formato da una determinata maggioranza prende le sue decisioni in pieno contrasto con l’opposizione. Molti, se non tutti i provvedimenti adottati da questo governo saranno revocati o stravolti, dopo le elezioni successive, quando al governo si sarà insediata una nuova maggioranza.

Un’altra modalità potrebbe essere quella di attuare la decisione solo quando entrambi si sono convinti della bontà di una scelta.

Con questa modalità il rischio è che le decisioni saranno il frutto della capacità di un coniuge di riuscire a logorare l’altro fino al punto di fargli dire di sì. Nelle guerre di logoramento vince non chi ha la soluzione migliore o più opportuna del problema, ma chi resiste ed insiste di più.

Nel caso in cui entrambi i coniugi avessero le stesse capacità di tener testa l’uno all’altro con grinta e determinazione, insorgerebbe un rischio, ancora più grave, che è quello dell’immobilismo. Con questa metodologia ogni decisione verrebbe presa dopo chissà quanto tempo, mentre contemporaneamente salirebbe alle stelle l’aggressività reciproca.

In ogni famiglia, ogni giorno, vengono prese decine di decisioni delle quali alcune molto importanti. Com’è possibile gestire queste decisioni quando, per ognuna di questa, i tempi si potrebbero allungare all’infinito?

E adesso chiediamoci: Chi è più portato a vincere in questo braccio di ferro dialettico? E poi: Quale può essere il vissuto ed il comportamento di chi perde?

Intanto è più facile che la vittoria nelle dispute linguistiche sia di chi ha una dialettica migliore. Vi è poi un’altra categoria di persone che non riesce a recedere e ha bisogno di avere sempre l’ultima parola: si tratta di uomini e donne con tratti ossessivi – compulsivi nella loro personalità. Queste persone, proprio perché molto rigide, sono in grado di tener testa per giorni e giorni all’interlocutore, ripetendo fino all’infinito la loro idea ed il loro pensiero, giusti o sbagliati che siano.

Adesso chiediamoci cosa succede nell’animo e quali reazioni mette in essere chi è costretto, suo malgrado a cedere, pur sapendo di essere nel giusto. Intanto vi è un montare del risentimento e dell’aggressività accompagnati da una svalutazione verso chi lo ha messo alle corde. Aggressività che può, in seguito, sfociare in atteggiamenti e comportamenti che, in qualche modo, possono far soffrire o limitare l’altro, anche in campi e per tematiche molto lontani dalla materia del contendere.

La persona costretta a cedere si sentirà in diritto, ad esempio, di negarsi sessualmente, di umiliare l’altro o di approfittare di qualsiasi altra occasione, per boicottare ogni iniziativa del coniuge. Cercherà inoltre, in tutti i modi, di attuare la sua ritorsione costruendo e poi attuando piani per delegittimare agli occhi dei figli, degli amici e dei parenti, chi gli ha fatto violenza. Potrà vendicarsi con il tradimento, visto in questi casi come un mezzo per umiliare l’altro, oppure potrà attuare una parziale o totale fuga dagli impegni familiari.

In questo caso, a volte lentamente ma inesorabilmente, altre volte repentinamente, si allontanerà prima dalla comunione di coppia e poi dalla famiglia, per cercare altrove quelle gratificazioni, quella comprensione, quell’accoglienza che non trova più nella sua casa. I campi dove potrà trovare gratificazione sono tanti: si potrà impegnare fino allo spasimo nel lavoro, in modo tale da riservare all’altro coniuge e alla famiglia il minimo indispensabile di tempo ed energie, oppure potrà maggiormente dedicarsi alle amicizie, agli hobby, alle avventure a sfondo sessuale, oppure andrà in cerca di un nuovo amore che sostituisca il primo.

Il giudice di famiglia.

Il legislatore, poi, prevedendo l’insanabilità di molti conflitti decisionali, ha inserito come ultimo arbitro il giudice di famiglia al quale i coniugi che non sono d’accordo possono rivolgersi. Per fortuna pochi conoscono e utilizzano questa norma che servirebbe soltanto ad allungare indefinitamente i tempi delle decisioni, aumentando nel contempo i già numerosi motivi per i quali viene adita l’Autorità Giudiziaria. Lasciare che altri: avvocati, giudici, tribunali, decidano, non si sa su quali parametri, sulla vita familiare di milioni di famiglie, ci sembra un modo veramente ingenuo per affrontare questi problemi. Su quali parametri infatti può decidere un giudice? Quanto peso ha la bravura dell’avvocato nel trovare tutti gli appigli legali a favore del proprio assistito? Quali i tempi biblici per ogni decisione?

La verità è che questa norma della responsabilità condivisa, presente nel nuovo diritto di famiglia, a parte le belle e pompose parole con la quale è stata salutata ed accompagnata, rende ingovernabili le famiglie, creando un perenne, grave regime di conflittualità tra i coniugi e quel che è peggio, tra il genere maschile e quello femminile.

Questo è quanto è avvenuto. Sono ormai decenni che i mass media amano confrontare e sottolineare le maggiori o minori qualità dei due generi. Ma soprattutto amano mettere in evidenza le conquiste e le migliori qualità del genere femminile, rispetto a quello maschile: “Le donne sono più intelligenti, più brave a scuola, più intraprendenti, più impegnate in famiglia, più disponibili”; mentre gli uomini “ Studiano meno, si impegnano poco nei lavori di casa, sessualmente sono costretti a difendersi e vengono messi in difficoltà dalla intraprendenza femminile, sono violenti, stupratori, pedofili e così via.” Nel contempo vengono emanate leggi e fondate associazioni per difendere le donne dalla violenza degli uomini.

Non ci si rende sicuramente conto che mettendo le donne contro gli uomini si danneggiano entrambi i sessi, in quanto viene minata alla base la fiducia, la stima e quindi l’interesse e l’apertura dell’uno nei confronti dell’altro. Si viene a creare quella che Risè chiama un’ottica di genere. “Ora l’ottica di genere, guardando all’interesse di ognuno dei due coniugi come qualcosa di diverso da quello dell’altro, mina proprio questa coesione e questa solidarietà, questa visione della famiglia come un tutto, nella quale o vincono tutti o perdono tutti assieme, perché è la famiglia stessa a venire negata, e tutti i suoi componenti a essere indeboliti da questa negazione.” 

Se questa legge è stata fatta in buona fede per ottenere quanto dichiarato, e cioè maggior democrazia e migliore distribuzione del potere tra uomini e donne, sarebbe sicuramente la legge più ingenua presente nel nostro ordinamento giuridico, in quanto il legislatore, nell’approntare questa norma, sembra aver completamente dimenticato le elementari caratteristiche della psicologia umana, specie le leggi riguardanti la psicologia dei gruppi e quelle riguardanti la psicologia dei generi sessuali. Avrebbe inoltre ignorato le esperienze di tutte le altre istituzioni pubbliche o private al cui vertice mai vengono inserite due persone che abbiano le stesse prerogative, le stesse responsabilità, le stesse funzioni. Avrebbe ignorato inoltre le esperienze delle famiglie del passato, e quelle del mondo animale, dove il responsabile del gruppo è quasi sempre o un maschio o una femmina.

Il sospetto.

A questo punto nasce il sospetto che l’intento legislativo non fosse affatto quello di rendere più democratico il sistema famiglia o di dare più potere alle donne ma un altro. Il sospetto è che lo Stato , dietro la spinta del mondo economico, mirasse, mediante le sue istituzioni, a diventare molto più forte e che, per ottenere ciò, avesse la necessità di indebolire le altre forze presenti al suo interno, in questo caso la forza delle famiglie.

Molti dati sembrano confermare questo sospetto.

Intanto la tecnica del “divide et impera” è molto antica. E’ stata abbondantemente sfruttata da tutti i conquistatori. Viene sistematicamente utilizzata nelle industrie, nelle università, e in tutte le istituzioni statali e private. Quando si vuole indebolire, senza far molto rumore, il potere di un capo e/o anche della struttura che egli coordina, basta mettergli accanto un’altra persona con le stesse prerogative, le stesse funzioni e gli stessi poteri. Lo scontato, consequenziale conflitto e scontro, diminuirà fin quasi ad annullarla non solo l’autorità di quel responsabile ma il peso stesso di quella struttura, aumentando nel contempo il potere di chi si trova nella parte immediatamente superiore della piramide gestionale, ma aumenterà anche il peso delle altre divisioni o servizi. Lo Stato  a questo punto è come se dicesse: “Sono veramente addolorato che voi mariti e mogli litighiate e non riusciate a mettervi d’accordo su tanti problemi, ma niente paura, per fortuna ci sono qua io. Per vostra fortuna potete tranquillamente rivolgervi a me, che potrò prendere la decisioni più giuste al vostro posto”.

Utilizzando la tecnica del divide et impera sono, infatti, gli stessi contendenti che si consegnano nelle mani di colui che li vuole assoggettare!

Esautorando il padre di famiglia con la divisione del potere con la madre, si è ottenuto lo scopo di diminuire molto il potere reale delle famiglie. Inserendo poi l’ultimo codicillo della legge che permette di rivolgersi ai giudici dello Stato  per risolvere le controversie sulla gestione della famiglia, nella sostanza lo Stato  ha assunto su di sé e sui suoi organi giudicanti la responsabilità ultima delle scelte e della funzionalità delle famiglie.

Lo Stato  patriarca.

Che il potere dello Stato  rispetto a quello delle famiglie sia notevolmente aumentato lo si coglie appieno con gli interventi dei giudici nelle separazioni e nei divorzi.

I genitori, anche se sono separati o divorziati, sono responsabili dell’educazione e delle cure dei figli, ma poi decidono i giudici in quali giorni e in quali ore ognuno di essi può svolgere il compito educativo e fino a che età il figlio può stare a bighellonare, senza impegnarsi nel lavoro, mantenuto di regola dal padre.

Decidono i giudici quanto un coniuge deve dare di mantenimento all’altro, anche se questo potrebbe lavorare e convive con un'altra persona che lo potrebbe mantenere. E così via.

L’uso dell’istituto del divorzio è molto antico. Esso però è stato sempre molto controllato e limitato, in tutte le società del passato, perché mette a rischio la funzionalità della famiglia e l’educazione e formazione della prole.

Si può essere favorevoli o contrari alla rottura del patto coniugale, ma le modalità con le quali è stato attuato in Italia ed in molti Stati del mondo occidentale fa pensare che, o non si è riflettuto minimamente sulle conseguenze più perverse o lo scopo era esattamente quello che si è ottenuto: avere delle famiglie sempre più piccole, fragili e deboli, ma anche più povere,  tutte dipendenti da uno Stato  patriarca.

Intanto non viene prevista alcuna penale per chi viola le varie norme del contratto o per chi chiede lo scioglimento del contratto matrimoniale. Può accadere allora, ed accade, che uno dei coniugi può tranquillamente farsi beffe delle promesse matrimoniali, tradire il coniuge, chiedere il divorzio e farsi poi mantenere dall’altro per tutta la vita. E, se l’avvocato è particolarmente bravo, può, con i soldi passatigli dall’ex, mantenere anche l’amante ed il suo cane!

In tutti i contratti civili vi è quasi sempre qualche norma per chi viola il contratto o per chi ne chiede lo scioglimento anticipato. Il motivo è semplice. I contratti, tutti i contratti fra due o più persone o fra due o più società, vanno difesi. Difendere un contratto significa dare maggiore serietà e garanzia allo stesso, ma significa anche dare maggiore garanzia di stabilità alla società civile e un’iniezione di fiducia ai contraenti. L’altro non potrà trattare o flirtare con la concorrenza contro la propria ditta; l’altro non potrà considerare il contratto alla stregua di carta straccia e buttare in aria i pezzettini dell’accordo come fossero coriandoli carnevaleschi. L’altro, se vorrà fare questo, dovrà pagare un pesante indennizzo. Tanto più alto è l’indennizzo, tanto più sarà costretto a riflettere nel trattare con troppa faciloneria gli impegni presi.

Che lo Stato  assuma sempre più poteri, sottraendoli alla famiglia, è abbastanza evidente anche in molti altri campi.

•    E’ lo Stato  che, con il pretesto del possibile sfruttamento del minore, stabilisce a priori mediante l’istruzione obbligatoria fino a quale età i figli devono frequentare la scuola senza lavorare, annullando in questo modo ogni potere decisionale delle famiglie. Queste vengono trattate come fossero tutte pronte a sfruttare i propri figli, ma anche come fossero tutte uguali per censo, scelte di vita, valori ecc.. Mentre invece sappiamo benissimo che vi sono famiglie ricche, famiglie povere e famiglie poverissime; famiglie che scelgono di dare più spazio alla vita affettivo – relazionale, piuttosto che a quella economica o culturale. Vi sono dei figli che trovano la loro gratificazione e realizzazione nello studio e altri che la trovano nell’impegno lavorativo. Per alcuni genitori l’ideale proposto ai figli è quello di una scuola che arrivi fino ai più alti gradi della formazione universitaria e al master, per altri l’ideale è una precoce occupazione che permetta di rendersi indipendenti e di responsabilizzarsi presto, aiutando la famiglia di origine o formando una propria famiglia.

•    E’ lo Stato , e non la famiglia, che decide a quale età i minori possono convolare a giuste nozze,  anche se la maturità per intraprendere un cammino matrimoniale potrebbe molto meglio essere giudicata da chi conosce questi giovani fin dalla nascita.

•    E’ lo Stato  con suoi consultori e con il giudice tutelare dei minori che decide se una minorenne può abortire oppure no, e non le famiglie dei due giovani che molto meglio conoscono persone e situazioni.

•    E’ lo Stato , mediante i suoi consultori, i suoi servizi sanitari, insieme alla donna interessata, che stabilisce se questa può abortire escludendo l’uomo, gli altri figli e familiari. Escludendo, quindi, la famiglia nella quale questa donna vive e di cui è componente essenziale.

•    E’ lo Stato  che decide mediante l’istituto dell’adozione speciale, che dovrebbe essere “di tutela dell’interesse del minore che si trova in situazione di abbandono materiale e morale”, se sottrarre o non per darli in gestione agli istituti o ad altre famiglie, i figli presenti in famiglie povere o indigenti, impossibilitate a dare la necessaria scolarizzazione e formazione professionale, mentre sarebbero capaci di dare l’ascolto, il calore e l’affetto necessario per la loro crescita e formazione umana.

•    E’ lo Stato  che si occupa di scegliere a quali famiglie o istituzione affidare i minori quando i genitori di questi, per qualunque motivo non sono in grado, momentaneamente, di dare ai minori le cure e l’assistenza necessarie. Anche in questo caso senza tener conto che accanto ad ogni famiglia vi è una rete amicale ed affettiva che potrebbe molto meglio dello Stato  aiutare la famiglia in difficoltà.

•    E’ lo Stato  che decide quali sono i mezzi di correzione e le punizioni da applicare o da non applicare nei confronti dei figli.

•    Addirittura decide lo Stato  se, quando e come, una ragazza di diciassette anni può frequentare un giovane, e a quale ora dovrà ritirarsi a casa dopo essere stata con il suo “moroso”. E’ veramente illuminante a questo riguardo il decreto del 13 maggio 1972 con il quale il tribunale per i minorenni di Bologna ordinò ai genitori di consentire che la figlia diciassettenne potesse frequentare il ragazzo al quale era affettivamente legata.

...Omissis... Preso atto che nella famiglia di P. U. si è determinato un grave stato di tensione nei rapporti tra i genitori e la figlia M., di anni diciassette, in considerazione del fatto che alla stessa è drasticamente impedito di potere vedere D. U., al quale essa è da lungo tempo affettivamente legata; considerato che sul conto del D. U. non emergono elementi oggettivamente idonei a giustificare simile preclusione, che appare collegata a risentimenti strettamente soggettivi; visto che(…omissis...)

decreta:

P. U. e la moglie L. M., devono consentire alla figlia minore, M., di vedere, dove essa crede, D. U. almeno un’ora al giorno;

I medesimi devono consentire alla figlia di uscire col D. tutte le domeniche pomeriggio e almeno due sere alla settimana.

P. M. curerà, in tali sere, di non rientrare dopo le ore ventiquattro; (sic)

Decide sempre lo Stato , attraverso i suoi servizi e i suoi tecnici e organi giudicanti, anche se sappiamo benissimo che non ha né le informazioni, né la preparazione, né la duttilità, né l’indipendenza di giudizio necessarie per rendere credibili ed accettabili tante sue decisioni.

E’ noto il potere di un buon avvocato, che è poi quello che chiede le parcelle più alte, nel piegare le leggi ed i regolamenti a favore del proprio cliente, rispetto ad un modesto avvocato, che è quello che si possono permettere solo i poveracci. Come sono note le ideologie e gli stereotipi di cui sono vittime operatori e specialisti del settore.

E’ noto che vi sono giudici onesti e giudici poco onesti. Giudici attenti e responsabili e giudici disattenti e superficiali. Tecnici e professionisti preparati e responsabili ed altri poco preparati e superficiali.

L’inserirsi in maniera pesante e intrusiva nei rapporti tra i coniugi e tra questi ed i loro figli e gli altri familiari non solo limita l’effettiva libertà delle famiglie, ma pretende di gestire i loro rapporti e quelli con i figli.

Questo comportamento mi fa pensare a quando io, come tutti i bambini, ero interessato ed incuriosito dai fiori, ma anche dal potere che liberamente potevo esprimere. Quando prendevo in mano un fiore, era eccitante pensare che potevo impunemente staccare un suo petalo per sentirne in pieno la morbidezza, ma anche per manifestare concretamente, in questo modo, il mio potere su di lui, su questa cosa bellissima che ero libero di gestire a mio piacimento. Ricordo che era piacevole continuare a togliere un petalo dopo l’altro e buttarlo per terra. Ma poi, alla fine, quando tutti i petali erano sparsi sul pavimento e tra le mani mi restava un brutto, gambo spelacchiato, mi assaliva l’amarezza e la tristezza e mi sentivo un piccolo sciocco per quello che avevo fatto.

Gli Stati moderni, nei confronti dell’istituto familiare, si sono comportati allo stesso modo. Legge dopo legge, sentenza dopo sentenza, utilizzando il proprio potere, hanno reso la famiglia un contenitore triste, brutto e vuoto. Vuoto nel potere, nell’autonomia e nelle scelte, ma anche vuoto della sua bellezza, della sua armonia, della sua dignità, della sua anima, del suo calore e vigore. Vuoto delle sue potenziali capacità e possibilità. Purtroppo però ancora, nonostante gli Stati siano in grado di osservare i disastrosi risultati di questa riuscita operazione, dando la responsabilità ad altri, non sono affatto propensi a correggere i propri errori e diventare, finalmente, adulti e responsabili.

Le leggi al femminile.

Vi è poi tutta una serie di leggi o di applicazioni delle leggi al femminile.  Queste, almeno sulla carta, dovrebbero tutelare il cosiddetto “sesso debole”, in realtà creano delle eclatanti disparità tra uomini e donne con pesanti conseguenze sul piano della relazione tra i sessi, e con un ulteriore indebolimento della coppia e dell’istituto familiare.

Pensiamo per esempio alla proposta delle quote rosa. Uomini e donne sono uguali, ma è giusto che a dirigere la politica locale, regionale o nazionale vi sia lo stesso numero di uomini e donne, mentre non vi è nulla di male se, nelle scuole materne, elementari e medie, la stragrande maggioranza degli insegnanti è di sesso femminile  e pertanto i bambini ed i ragazzi, durante gli anni più importanti della loro formazione avranno, come uniche figure di riferimento, solo donne. Nonostante che: “Con un docente maschio in cattedra il 51% dei bambini della scuola primaria si comporta meglio e il 42% si impegna di più.” 

Pensiamo poi all’applicazione della legge sul divorzio, mediante la quale i figli, anche ora che è presente l’affidamento condiviso, sono quasi sempre affidati alla madre, che gode anche della casa coniugale, dei mobili, delle suppellettili e del suo mantenimento. L’applicazione di questa legge porta a pensare che quasi sempre un matrimonio si sciolga per colpa del padre, il quale è giusto che sia punito limitando molto il suo rapporto con i figli, condannandolo a mantenere la moglie, la quale potrà usufruire della casa coniugale, dei mobili e delle suppellettili.

Ma certamente non è così. Almeno nel cinquanta per cento dei casi bisognerebbe supporre che la colpa sia dell’altro o che vi sia una responsabilità condivisa.

Pensiamo alla legge sulle violenze in famiglia, nella quale il coniuge violento non può che essere il marito da mandare fuori casa se ha uno scatto di aggressività verso la moglie o verso i figli. Mentre la moglie, proprio in quanto donna, e quindi per definizione creatura fragile ed indifesa, difficilmente potrà mai essere accusata di aver esasperato il marito con le sue parole o con i suoi comportamenti.

Pensiamo alle leggi sul collocamento a riposo, per le quali la donna, che vive di più, va in pensione prima dell’uomo.

Pensiamo soprattutto alla legge sull’interruzione della gravidanza, la quale permette alla donna di eliminare il figlio del proprio uomo, mentre quest’ultimo è costretto ad accettare e mantenere per decenni ogni suo figlio nato anche fuori del matrimonio, contro la sua volontà o addirittura mediante l’inganno.

Giacché vi è sempre una tendenza naturale al bilanciamento e all’equilibrio, queste leggi e la loro applicazione faziosa, lavorano poi, in definitiva contro le stesse donne, contro il matrimonio ed in definitiva contro la famiglia. Segno eclatante di questo malessere nel rapporto tra i generi è il frequente rifiuto del matrimonio, della paternità, ma anche di qualsiasi legame che potrebbe risolversi in un impegno non direttamente gestibile,  e quindi la condanna di tante donne a vivere nella solitudine, senza il calore della famiglia e senza il supporto di un uomo. Commenta Risè “...come, infatti, constata amaramente lo psicoterapeuta, costretto a misurare l’angoscia di queste donne affettivamente sole, perché prive di una sponda maschile emotivamente, e spesso cognitivamente, in grado di accompagnarle lungo un percorso di vita.”

Segnale di una esasperata conflittualità di genere è il tragico crescente numero di atti violenti nei confronti delle donne che vengono stuprate, percosse, uccise in feroci ed efferati delitti all’interno e all’esterno della famiglia.

Le leggi fiscali e la famiglia.

Vi sono poi le leggi fiscali che sono state ben analizzate dall’ex presidente del Forum delle famiglie Luisa Santolini , la quale ha rilevato una serie di incongruenze delle quali uno Stato  civile dovrebbe vergognarsi. Ad esempio:

“Una famiglia con due figli e con 25000 euro di reddito che spende 16000 euro per mantenerli, ha un beneficio fiscale di 1000 euro, mentre, se dona la stessa cifra a un partito ne trae un beneficio fiscale fino a 3000 euro.

In Italia, oggi, gli alimenti al coniuge separato possono essere detratti dalle tasse, ma se la stessa cifra la si trasferisce nella famiglia, per il fisco è tassabile.

L’interruzione di gravidanza è gratuita, mentre nelle ecografie di controllo sullo stato di salute dell’embrione si paga il ticket .

Fino a 18 anni le ragazze non possono votare o guidare, ma dai sedici anni le ragazze possono abortire liberamente con il beneplacito del giudice tutelare.

In base alle attuali tariffe, 90 metri cubi di acqua consumati da sei persone con sei contatori, non arrivano a costare 20 Euro, ma la stessa quantità d’acqua consumata da sei persone nella stessa famiglia arriva a 70 Euro.

Se iscrivono i figli all’asilo i separati hanno un punteggio superiore alle famiglie regolari, che spesso non trovano posto.

Purtroppo nel gioco della democrazia avviene quello che il cardinale Alfonso Lopez Trujillo, intervistato da Giacomelli, chiama “positivismo legale”, per il quale “Una legge è considerata buona perché nel gioco della democrazia si stabilisce una procedura, grazie alla quale è la maggioranza che decide anche sui contenuti. In realtà vince chi ha più forza, più soldi o più potere, mentre una vera democrazia dovrebbe rispettare i diritti fondamentali e non piegarli ai più forti.”

Se fosse vero il sospetto che lo Stato sia riuscito ad avere più forza a scapito delle famiglie, la vittoria, se di vittoria si potesse parlare, sarebbe una vittoria di Pirro. La forza di uno Stato  è direttamente proporzionale alle qualità dei suoi cittadini. Se questa qualità scade, se si diffondono il disagio e la malattia psicologica, se allignano i disvalori, se si diffondono la disonestà, la corruzione, gli atteggiamenti ed i comportamenti illeciti, l’aggressività e la bramosia del potere, lo Stato, non solo non diventa più forte, ma rapidamente si indebolisce e muore nel malessere dei suoi cittadini.

 

Tratto dal libro: "MONDO AFFETTIVO E MONDO ECONOMICO" DI Emidio Tribulato

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