Convegno Badolato -" La terapia affettivo - relazionale e il Gioco Libero Autogestito in bambini con tratti autistici  o simil autistici"

Convegno Badolato -" La terapia affettivo - relazionale e il Gioco Libero Autogestito in bambini con tratti autistici o simil autistici"

 

Relatore: dott. Emidio Tribulato

Alcuni autori vedono il disturbo autistico come un’alterazione genetica. Altri come una disfunzione organica, forse dovuta a delle microlesioni cerebrali per gravidanza difficile, nascita prematura, patologie neonatali. 

Entrambe le due cause, genetiche o organiche, causerebbero dei deficit o delle alterazioni a livello di alcune aree cerebrali (nucleo striato, ippocampo, sistema serotoninergico ecc.), che sovraintendono alla comunicazione e all’interazione sociale.

Queste microlesioni o disfunzioni provocherebbero vari deficit: come un’innata incapacità di interagire emozionalmente con l’altro; un disturbo cognitivo che non permette a questi soggetti di farsi delle rappresentazioni mentali degli altri; una alterazione delle Funzioni Esecutive, le quali sono determinanti nell’organizzare e pianificare dei comportamenti che sono messi in atto quando dobbiamo risolvere dei problemi, o ancora delle difficoltà nell’elaborare le esperienze, per cui il bambino avrebbe degli ostacoli ad accedere dal particolare all’universale; e così via. 

Di conseguenza molte terapie, e quindi molti operatori, soffermano la loro attenzione e il loro impegno soprattutto sui limiti o sui deficit, che sono annotati e minuziosamente descritti nei soggetti con autismo.

Le terapie proposte: logoterapia, psicomotricità, ippoterapia, musicoterapia, terapie cognitivo – comportamentali, pet therapy e tante altre, tendono ad affrontare e se possibile a risolvere queste limitazioni o deficit presenti in questi soggetti, in alcuni casi stimolando e quindi cercando di migliorare o arricchire il linguaggio, le capacità logiche, cognitive o l’autosufficienza, mentre in altri casi le terapie mirano ad ottenere un maggior controllo dei disturbi emotivi che provocano i cosiddetti “comportamenti problema”.  

Questi interventi tuttavia non riescono ad eliminare le componenti fondamentali dovute alla chiusura autistica. Tanto che spesso è necessario ricorrere a terapie farmacologiche per cercare di controllare i vari disturbi emotivi e comportamentali.   

La terapia affettiva-relazionale che utilizza il Gioco Libero Autogestito, studiata da vari anni presso il Centro Studi logos di Messina O.D.V., si sofferma, invece, su ciò che i bambini con sintomi di autismo provano e vivono nel loro animo. Pertanto, cerca di capire quali sono i sentimenti e le emozioni presenti nell’animo di questi bambini, di cosa hanno bisogno per acquisire una buona serenità interiore; cosa cercano e desiderano dagli adulti e dall’ambiente in cui vivono.

Da queste ricerche durate oltre un decennio è scaturita la convinzione che per poter accedere al mondo interiore di questi bambini e comprenderlo meglio, è indispensabile mettere in primo piano ed affrontare il sintomo più importante e grave, che è poi quello che attribuisce il nome a questa patologia: l’autismo. Questo sintomo: la chiusura in sé stessi, è la causa prima del loro grave malessere psichico e di tutti gli altri sintomi che accompagnano questa patologia.

I motivi che hanno portato a questa conclusione sono essenzialmente tre.

Il primo nasce dall’osservare un abnorme aumento, descritto a volte come una epidemia, di disturbi dello spettro autistico, aumento che non trova alcuna spiegazione plausibile di tipo genetico o organico mentre è evidente il peggioramento, avvenuto negli ultimi decenni, dell’ambiente familiare, sociale e affettivo – relazionale in cui vivono i nostri bambini.

Il secondo motivo scaturisce dalla constatazione che il bisogno di chiudersi in sé stessi e allontanarsi dall’ambiente esterno, non è caratteristico soltanto dei bambini che presentano questa patologia. Tale desiderio o bisogno, che a volte si traduce in precisi comportamenti, lo ritroviamo, anche se in modo lieve, parziale e momentaneo, anche nei bambini “normali” di tutte le età, quando reagiscono, chiudendosi e isolandosi per qualche tempo, a causa di qualche grave ingiustizia subita o per l’impatto nella loro psiche di un ambiente eccessivamente stressante, frustrante o traumatizzante.

Inoltre, nei bambini che presentano varie problematiche psicologiche, come reazione di difesa, non è raro avvertire in loro il bisogno e la necessità di allontanarsi, almeno nell’immaginazione, dall’ambiente di vita. Questi minori, nei loro racconti e disegni, frequentemente fanno intravedere la necessità di distaccarsi fisicamente e psicologicamente dalla propria casa, dai loro genitori e familiari e dal loro consueto ambiente di vita, pur di sfuggire a situazioni ambientali eccessivamente frustranti e opprimenti, che causano ad essi un notevole disagio o un’insopportabile sofferenza.

Anche per quanto riguarda gli adolescenti, molti di loro, quando presentano problematiche o difficoltà psicologiche, pur non arrivando alla gravità della sindrome di Hikikomori, si chiudono nella loro stanza, in compagnia soltanto del loro computer o di qualche video-gioco e fanno di tutto per tenersi lontani da ogni contatto esterno, anche nei confronti dei propri familiari.

Il bisogno di fuggire dal mondo, almeno in maniera parziale, è spesso presente anche negli adulti. Pertanto, alcuni, pur di allontanarsi dai conflitti, dai traumi, dalle tensioni e stress, presenti nel loro ambiente di vita, fuggono, con motivazioni varie in luoghi e paesi lontani, alla ricerca di un ambiente più semplice, meno ansiogeno e stressante.

Sono tanti, inoltre, gli adulti che cercano di escludere dalla propria vita e dai propri contatti sociali, alcune categorie d’individui, quando li giudicano apportatori di problemi e sofferenze. Pertanto, alcuni, quando ritengono che uno dei due generi sessuali sia stato causa di grave delusione, frustrazione o amarezza, non vogliamo avere a che fare con il sesso femminile (misoginia) o con il sesso maschile (misandria) o con sentimenti come l’amore. Altri ancora si tengono ben lontani dagli extracomunitari, quando pensano siano stati la causa dei loro problemi di lavoro oppure non vogliono avere alcun rapporto con le persone di etnia rom, perché hanno timore dei loro comportamenti, e così via.  Altre volte questa fuga da persone o dalla realtà è attuata sia dagli adolescenti sia dagli adulti mediante l’uso di alcol o droghe che, almeno momentaneamente, allontanano il soggetto dai problemi psicologici e dalla sofferenza interiore.

Tuttavia, senza che a volte ce ne rendiamo conto, le chiusure, tutte le chiusure, se inizialmente ci apportano un senso di maggiore pace, protezione e sicurezza, nel tempo tendono a peggiorare la nostra condizione psichica, poiché ci privano di tutte le esperienze che avremmo potuto fare e non abbiamo fatto, di tutte le relazioni, le amicizie e gli affetti che avremmo potuto avere e ai quali abbiamo volontariamente rinunciato. Ma soprattutto le chiusure fanno sorgere nell’animo, come fossero funghi velenosi, sgradevoli emozioni negative, che accentuano i nostri sospetti e le nostre paure, aumentano la nostra aggressività e irritabilità, esasperano il malumore che già ci opprime.

Ebbene anche nei bambini molto piccoli, quando questi non riescono ad affrontare delle situazioni troppo dolorose per il loro sentire, si mette in moto un bisogno istintivo di difesa, che li spinge ad allontanarsi dalle persone e dall’ambiente che li circonda, inserendo tra loro e gli altri qualcosa, come un muro o meglio una barriera psicologica, che sperano li isoli, li difenda e li protegga da emozioni troppo intense e penose per essere sopportate dalla loro fragile psiche.

Chiudendosi in sé stessi, come in un bozzolo, mediante un distacco a volte solo parziale, altre volte quasi totale, dal mondo che li circonda, questi piccoli cercano di raggiungere l’anestesia dei sentimenti e delle emozioni, così da impedire agli stimoli eccessivamente dolorosi che provengono dall’ambiente esterno di arrivare alla coscienza.

Questo bisogno di difesa nei confronti del mondo esterno è ben evidenziato da alcune persone affette da autismo che hanno avuto la possibilità di descrivere questa condizione di chiusura.

Morello, un giovane che soffriva di disturbi autistici, che era riuscito a laurearsi in Scienze umane e pedagogiche, presso l’università di Padova, nel suo libro “Macchia, autobiografia di un autistico”, ha descritto le sue emozioni, i suoi ricordi e i suoi pensieri. In quest’autobiografia, mediante un linguaggio poetico ma allo stesso tempo tragico, così descrive questa condizione di chiusura verso il mondo esterno: ‹‹Cupola di vetro sopra laguna ghiacciata è l’autismo chiuso dentro se stesso››.[1]  

In questa concisa descrizione ritroviamo alcuni elementi fondamentali di questa patologia:

  • La cupola di vetro. È quella protezione che dovrebbe riuscire a tener fuori tutte le situazioni negative che possono venire dal mondo esterno. Questo tipo di chiusura, pur permettendo al soggetto di osservare ciò che succede fuori di sé, impedisce tuttavia di interagire, se non in minima parte, con l’esterno.
  • La laguna ghiacciata. La cupola di vetro copre una realtà molto fredda, desolata e triste: una laguna ghiacciata, nella quale l’elemento predominante è, evidentemente, la mancanza di calore umano e di affetto.
  • Chiuso dentro sé stesso. Questa è la condizione nella quale vive il soggetto con autismo: la chiusura dentro il proprio Io.

Lo stesso autore, in un’altra pagina del suo libro, così rappresenta questa sua esigenza interiore di estraniarsi dalla realtà e chiudersi nella sua cupola di vetro:

‹‹La mia casa era la mia prigione. Preferivo restare a perdermi in camera. Mi lasciavo avvolgere dalla musica. La stanza allora si dissolveva in uno spazio incantato. C’erano molti animali, il leone mi girava attorno. La pecora saltava sopra la mia testa: mi sembrava di essere in un giardino tutto colorato (…) Ero libero dal mondo, libero da bisogni. La voce del papà poi mi scuoteva: “Cosa fai sempre solo in camera?” mi diceva. “Vieni a farti vedere” e l’incanto svaniva. Calava la realtà e restava solo il gesto continuo dello sfregarsi delle dita per dominare l’ansia››.[2]

In questa seconda descrizione le immagini, sempre molto allegoriche e poetiche, sono molteplici.

  • La casa. Una prigione nella quale il soggetto con disturbi autistici si rinchiude volontariamente.
  • La stanza, che si dissolve in uno spazio incantato. Il bambino che ha scelto la chiusura autistica cerca di ritrovare nella propria casa e nella propria stanza, con l’aiuto della musica, un luogo e dei momenti che gli permettano di estraniarsi dal mondo reale per scoprire, in un proprio spazio irreale ma incantato, la condizioni psicologica agognata, fatta di libertà, luce, colore, armonia, serenità e pace.
  • L’intervento esterno. Quest’intervento è giudicato come inopportuno, perché riporta e costringe il giovane Morello ad affrontare una realtà triste, ansiosa e paurosa, che egli cerca di diminuire e combattere, utilizzando una stereotipia: lo sfregarsi delle dita.

 

Una donna con autismo: Temple Grandin, laureata in Scienze animali presso l’università dell’Illinois e professoressa lei stessa di scienze animali, descrive invece il suo stato mentale di chiusura autistica, utilizzando la similitudine dei pannelli di vetro:

‹‹Mentre ero intrappolata tra i pannelli di vetro, era pressoché impossibile comunicare attraverso di essi. Essere autistici è come essere intrappolati in questo modo. Le porte di vetro simbolizzavano i miei sentimenti di distacco dalle altre persone e mi aiutarono a fare fronte all’isolamento››.[3]  

La Grandin usa come similitudine della condizione di autismo i pannelli di vetro. Questo simbolo è simile a quello usato da Morello. Quindi non un muro opaco ma dei pannelli di vetro trasparente che, se da una parte proteggono dal mondo esterno permettono, se si vuole, di guardare fuori, senza tuttavia provare e soffrire di alcuna particolare emozione. Tuttavia, fa notare l’autrice come questa condizione sia anche una trappola dalla quale è difficile sfuggire.

La stessa autrice, parla anche lei, come Morello, della ricerca di una situazione dì trance e d’incantamento quando riusciva a estraniarsi dal mondo: ‹‹Quando venivo lasciata da sola, spesso andavo in una specie di trance, come ipnotizzata. Mentre andavo in trance mi tagliavo fuori dalle immagini e dai suoni che mi circondavano››.[4]

Donna Williams, un’altra donna che soffriva di autismo, aveva trovato da piccola delle particolari strategie per fuggire dalla realtà e perdersi in un suo incantato mondo interiore:

‹‹Scoprii che l’aria è piena di puntini. Se guardavo nel vuoto c’erano i puntini. La gente mi passava davanti, ostruendo la mia visione magica del nulla. Io mi mettevo davanti a loro. Protestavano. La mia attenzione era saldamente fissata sul desiderio di perdermi in quei puntini e ignoravo la protesta, guardando dritto attraverso l’ostruzione con un’espressione calma, addolcita dell’essere io persa in quei puntini››.[5]

E ancora sempre la Williams:

‹‹Riuscii alla fine a perdermi in qualsiasi cosa desiderassi – nei disegni, sulla carta da parati o sul tappeto, in un suono che si ripeteva all’infinito, nel rumore sordo che ottenevo, battendomi ripetutamente sul mento; persino la gente non fu più un problema. Le loro parole divennero un confuso balbettio, le loro voci uno schema di suoni. Riuscivo a guardare attraverso di loro fino a sparire e poi, più tardi, sentivo che mi ero persa in loro››.[6]

L’autrice spiega che cosa provava in quella situazione psicologica particolare che lei stessa ricercava:

‹‹In questo stato ipnotico potevo afferrare la profondità delle cose più semplici; ogni cosa era ridotta a colori, ritmi e sensazioni. Questo stato mentale mi dava un conforto che non potevo trovare in nessun altro luogo, a quello stesso grado››. [7]

Ancora la stessa autrice (Williams)

‹‹Da sveglia inseguivo implacabilmente il sogno: mi mettevo di fronte alla luce che brillava di fronte alla finestra, vicino al mio lettino e mi fregavo furiosamente gli occhi. Eccoli lì! Gli splendenti, vaporosi colori che si muovevano attraverso il bianco››. ‹‹Smettila!››, giungeva l’implacabile stroncatura. Io continuavo gioiosamente. “Slap!” ››.[8]

Nelle descrizioni di quest’autrice vi sono numerosi elementi di notevole interesse per capire la condizione mentale della chiusura autistica:

  • Vi sono intanto un desiderio e una volontà di allontanarsi dalla realtà, giudicata come triste e desolante, per perdersi in sensazioni che danno sicurezza e piacere, anche se sono emozioni molto semplici e povere.
  • Vi è la descrizione dei mezzi utilizzati per ottenere ciò: ‹‹Riuscii alla fine a perdermi in qualsiasi cosa desiderassi – nei disegni, sulla carta da parati, sul tappeto, in un suono che si ripeteva all’infinito, nel rumore sordo che ottenevo, battendomi ripetutamente sul mento››.
  • Sono evidenti l’irritazione e il disturbo che l’autrice provava a causa della presenza delle persone e delle loro parole attorno a lei: ‹‹…persino la gente non fu più un problema. Le loro parole divennero un confuso balbettio, le loro voci uno schema di suoni››.
  • È posto l’accento sul conforto che lei avvertiva in questa condizione: “Questo stato mentale mi dava un conforto che non potevo trovare in nessun altro luogo, a quello stesso grado”.
  • Le reazioni degli altri, che di solito cercano di riportare alla realtà i soggetti che si chiudono nel loro mondo autistico non sempre sono adeguate, anche se non sono così brutali e violente come quelle che usava la madre della Williams: gli schiaffi.
  • L’autrice vedeva la causa del suo isolamento nella paura di vivere delle emozioni negative che le avrebbero comportato notevole paura e sofferenza. In un altro brano dice: ‹‹La gente pensa alla realtà come a una specie di garanzia su cui appoggiarsi. E tuttavia, fin da bambina, ricordo di aver trovato la mia unica sicurezza affidabile nel perdere ogni consapevolezza delle cose che in genere sono considerate reali››.[9] Per cui: ‹‹Era sicuramente qualche incontrollabile resistenza interiore che mi impediva di entrare nel mondo, in generale››.[10]
  • Per quanto riguarda la volontarietà o meno di questo comportamento, per la Williams: ‹‹Benché la sensazione che creava la perdita di me stessa si verificasse, la maggior parte delle volte, fuori dal mio controllo, scoprii che potevo arrendermi ad essa o combatterla››.[11]

Abbiamo detto che questa tendenza a fuggire da una realtà avvertita troppo frustrante o dolorosa è presente anche in tanti ragazzi e adulti. Tuttavia, questa istintiva, ma anche a volte voluta e ricercata decisione di fuggire dalla realtà, per trovare rifugio in un mondo tutto proprio, quando avviene in bambini molto piccoli comporta delle conseguenze molto più drammatiche, gravi e destabilizzanti, rispetto a quelle che possono essere vissute da dei ragazzi o dagli adulti.

E ciò per diversi motivi.

  1. I bambini molto piccoli sono privi delle capacità di omeostasi e di quelle efficienti difese presenti nell’Io dei ragazzi e degli adulti.

Per tali motivi reagiscono al dolore emotivo senza alcun filtro e, quindi, in modo molto più intenso e immediato.

  1. I bambini molto piccoli possiedono conoscenze minime del mondo nel quale si ritrovano a vivere e hanno uno sviluppo psichico fragile e immaturo.

Pertanto, quando fuggono, per un qualunque motivo, da un ambiente avvertito come intollerabile, si ritraggono dal mondo ancor prima che la loro umanità possa realmente venire alla luce. In questa condizione non possono trovare in sé stessi qualcosa di diverso che non sia la loro povera, instabile e fragile realtà del momento. Non possono certamente sperare di trovare, anche solo con la fantasia, in qualche altro luogo, in un’altra casa o in un’altra famiglia, quella serenità, quella pace e calore che cercano e sono indispensabili al loro sano sviluppo. Cosa che invece possono fare i ragazzi più grandi e, ancor meglio, gli adulti.

  1. La personalità dell’essere umano si struttura e si espande soltanto mediante un proficuo e costante contatto con gli altri. [12]

La prima infanzia non è altro che un graduale processo di costruzione della realtà. La consapevolezza di essa sorge gradualmente, mediante innumerevoli esperienze positive che provengono dall’ambiente di vita del bambino[13], pertanto la maturazione e l’arricchimento della personalità degli esseri umani, che avverranno per gradi, si attuano prevalentemente mediante il dialogo e le relazioni con gli altri. Solo dai rapporti positivi con le persone care che abbiamo accanto a noi, riusciamo ad ottenere la serenità, le attenzioni, le cure e il dialogo necessari a sviluppare tutte le capacità umane, geneticamente presenti. Per tale motivo, nel momento in cui dei bambini molto piccoli istintivamente si estraniano dalla realtà per chiudersi in sé stessi, la loro personalità non avrà più la possibilità di crescere e svilupparsi normalmente e armoniosamente, pertanto saranno costretti a rimanere non solo immaturi ma anche molto fragili e in preda alle emozioni più disparate.

  1. Il costante stato d’immaturità, nel quale vivono i bambini chiusi nel loro autismo, impedisce lo sviluppo di quei meccanismi compensatori e di difesa, presenti nei soggetti più maturi.

Per tale motivo questi bambini saranno facile preda della tristezza e dell’angoscia, saranno costretti a soccombere alle ansie e alle paure, che potranno espandersi nel loro Io, senza incontrare difese efficaci e mature. Pertanto, con facilità potranno svilupparsi nella loro mente instabilità, caos e confusione. In definitiva questi bambini, bloccati e limitati nel loro sviluppo affettivo e mentale a dei livelli primitivi, tenderanno a reagire in maniera insolita, eccessiva e sproporzionata, ogni qualvolta saranno stati costretti ad affrontare esperienze, sensazioni ed emozioni nuove e diverse che, a noi adulti, possono apparire semplici e banali o con modeste e accettabili cariche di ansia e frustrazione. Infine, si accentueranno in loro sia la fragilità psichica sia l’insicurezza emotiva.

  1. Per le famiglie, l’assenza o l’inadeguatezza di risposte emotive appropriate nei propri figli sarà un’esperienza molto penosa e frustrante.

Mancherà ai genitori la gioia e la gratificazione che nascono dalle relazioni affettive che s’instaurano con i propri bambini. I baci, le carezze, gli abbracci e le parole d’amore che i piccoli spesso rivolgono ai genitori sono, per questi ultimi, fonte di gratificazione, piacere e gioia e servono a mantenere e rinforzare il legame tra loro (Bowlby, 1988). Ciò, a sua volta, servirà a migliorare la comunicazione genitori – figli, controbilanciando efficacemente la fatica e le preoccupazioni necessarie per allevarli. Quando purtroppo da parte dei figli viene attuata una fuga da queste fondamentali relazioni, può sopraggiungere nei genitori una consequenziale difficoltà relazionale, mentre il dialogo vero e profondo, a causa dell’accentuarsi dell’ansia e delle preoccupazioni, tenderà a peggiorare sia in quantità sia in qualità.

In definitiva, nel momento in cui i bambini si chiudono in sé stessi, i loro problemi psicologici, piuttosto che diminuire, aumenteranno, poiché cresceranno in loro la diffidenza, l’ansia e la paura nei confronti di ogni stimolo proveniente dall’esterno ma anche dall’interno della loro mente e del loro corpo. Anzi, se vi era stata inizialmente una crescita normale, la chiusura che questi bambini sono costretti ad adottare, tenderà a impoverire e a destrutturare gradualmente la loro fragile e immatura personalità, per cui, anche se avevano già acquisito una qualche forma di linguaggio o qualche altra competenza, ad esempio, nel campo dell’autonomia personale e sociale, a causa del severo deficit presente nel loro sviluppo affettivo-relazionale che si è instaurato ed essendo vittime di processi regressivi, rischieranno di perdere anche queste competenze.

Il terzo motivo che ci fa pensare che la chiusura, in sé stessi e il malessere conseguente, siano la causa prima degli svariati sintomi presenti nell’autismo è che quando questa chiusura e questo malessere psicologico diminuiscono o scompaiano tutte le potenzialità del bambino ritornano a svilupparsi e a crescere: crescono il linguaggio, le capacità logiche e cognitive, l’autonomia, la socialità, le capacità relazionali, il controllo delle proprie emozioni, i comportamenti diventano più adeguati. E così via. E ciò senza alcun bisogno di altre terapie, che anzi nella fase di chiusura autistica sono vivamente sconsigliate.  

I due casi che presentiamo ne sono un esempio.

Antonio [14]

Antonio, un bambino di nove anni, presentava importanti sintomi di chiusura autistica che si manifestavano a livello ideativo con un pensiero incostante e dispersivo. Presentava inoltre un parziale distacco dalla realtà; notevoli difficoltà nelle relazioni sia con gli adulti sia con i coetanei, con i quali diventava reattivo, irruente e, a volte, violento. Erano evidenti le stereotipie motorie, nel linguaggio e nei comportamenti ma anche le tante paure, gli atteggiamenti provocatori e aggressivi, lo scarso controllo nelle pulsioni sessuali, nonché le gravi difficoltà nell’attenzione, le crisi di panico, gli atteggiamenti eccessivamente pignoli, il riso fatuo. Il linguaggio era presente ma poco coerente e, a volte, sconnesso e coprolalico, come in questo esempio:

‹‹La mamma: da pianto, da nonna, un mostro, una bestia, un’agendina, un serpente che fa schifo.

Papà: si fa tutta la cacca addosso, è brutto e piscione e nel culetto esce cacca e pipì››.

Il bambino sapeva leggere e scrivere, anche mediante il computer. Tuttavia, a volte, preferiva utilizzare la penna e i fogli di carta.

Le sue prime produzioni linguistiche scritte al computer erano di questo tenore:

Paolone e

quello

Aaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa

un tanto giorno

di fa pensavo z

che qualcuno come noi

chiamavanoo’ il

loro mondo

polo sei un

brutto e di male

un fannullone

un imbroglione

un bruttissimo

codardo d’

imbranato

impastore.

Commedia

Teadraleritornell

O scrittura.

In un periodo successivo, con il miglioramento dei suoi vissuti interiori, le frasi diventarono meglio organizzate e strutturate, ma riportavano, senza molta immaginazione, alcuni episodi di film che vedeva e rivedeva spesso alla tv.

Pina, la nonna di Cappuccetto Rosso

C’ERA UNA VOLTA CAPPUCCETTO ROSSO CHE

VENDEVA LA FRUTTA NEL BOSCO DOVE C’ERA LA SUA

NONNA DI NOME PINA.

TOTO’ ERA UN PRINCPE E SUO PADRE ERA UN DUCA

POI PAOLO VILLAGGIO NON RIUSCIVA A USCIRE DALLO

SPORTELLO MA USCIVA DAL COFANO.

ANDO’ IN UFFICIO PER ENTRARE E FARE LE SUE

FACCENDE E POI HA VISTO SUPERMAN E SI E’TRASFORMATO IB SUPERMAN.

POI VEDE CHE C’E’ UN ORSO IN ASCENDORE E SI SPAVENTA POI L’ORSO LO PRENDE CON TUTTA LA FORZA SI CHIUDE L’ASCENSORE E GLI STRAPPAI VESTITI E POI ESCE CON I VESTITI TUTTI QUANTI STRAPPATI

Il bambino effettuava terapia affettivo – relazionale utilizzando la tecnica del Gioco Libero autogestito mediante delle sedute settimanali della durata di 45 minuti.

Possiamo dividere il suo percorso psicoterapico in quattro fasi.

La fase degli elenchi

Il gioco che amava effettuare nelle prime sedute di psicoterapia riguardava gli elenchi. Piaceva al bambino scrivere su carta o su una pagina di Word: nome e cognome delle persone che conosceva, dei suoi compagni di classe, dei suoi insegnanti, della famiglia del terapeuta ecc... Successivamente il gioco dei nomi si spostò sul piacere di scrivere nomi lunghi, a volte reali, ma per lo più inventati e senza senso, purché fossero molto lunghi.

La fase delle fantasie solitarie

In questa seconda fase il bambino manifestava la sua notevole inquietudine interiore saltellando da una parte all’altra della stanza, con in mano una matita, un giocattolino o un pupazzetto di plastica di forma allungata che, per quasi tutta la seduta, batteva a terra o su un altro oggetto. In alcuni momenti, inoltre, si mordicchiava un dito, e sputacchiava. I genitori non sopportavano questi suoi continui comportamenti incongrui e stereotipati, per cui lo rimproveravano oppure evitavano di lasciarlo da solo o, “per distrarlo”, lo stimolavano a vedere anche per molte ore al giorno qualche film alla TV.

Mi guardarono sorpresi quando gli dissi di lasciare che lui utilizzasse questi suoi comportamenti stereotipati perché servivano a diminuire l’ansia e la tensione interiore mentre, invece, era poco utile, anzi dannoso, trascorrere tante ore al giorno davanti alla TV. ‹‹Ma dottore›› diceva il padre, ‹‹dalla Tv egli può apprendere tante cose utili, anche perché io scelgo per lui documentari ricchi di cultura e bei film storici, ma da questa matita che batte sempre a terra cosa può mai apprendere?›› Il papà di Antonio non era l’unico a vedere, come il fumo negli occhi, le stereotipie presenti nei bambini con Disturbo Autistico. Gli facevano e gli fanno buona compagnia non solo altri genitori ma anche molti operatori: sia medici, sia psicologi!

La fase delle battaglie espresse verbalmente

Dopo due-tre sedute durante le quali Antonio batteva la matita o un altro oggetto per terra, in silenzio, isolandosi da me a dal mondo esterno, il bambino, vedendo che restavo seduto in disparte, guardando lui con interesse, attenzione e partecipazione, senza però mai disturbarlo con domande, osservazioni o richieste di alcun tipo, senza mai rimproveralo per quello che faceva, osservando anzi che ero ben lieto del suo comportamento, tanto che all’inizio della seduta gli cercavo e gli consegnavo, con un sorriso, la sua matita o il suo pupazzetto preferito, avendo più fiducia nei miei riguardi, cominciò ad esporre ad alta voce i suoi discorsi interiori.

Da questi fu facile capire che in realtà, i movimenti che eseguiva con la matita, erano solo l’espressione motoria di lotte che lui mimava in modo incessante. Lotte tra Caino ed Abele, tra Davide e Golia, tra Achille ed Ettore, tra Tarzan ed i suoi nemici, lotte di animali tra loro o contro le persone. Insomma, erano tutti combattimenti che lui descriveva aiutandosi con un oggetto.

Queste lotte avevano sempre dei contenuti molto cruenti: in genere era il più forte ed il più cattivo che colpiva alla testa, alle gambe e agli occhi in maniera continua, incessante, la sua vittima. Questa rimaneva, a volte storpiata, altre volte schiacciata o ferita gravemente, per cui dal suo corpo martoriato usciva del sangue che si spargeva a terra. In altri casi alla vittima venivano strappati gli occhi o le budella, oppure moriva e veniva messa nella tomba ma poi resuscitava e la lotta riprendeva incessantemente, senza avere mai fine.

La tragica storia della Sirena

La storia della Sirena che abbiamo registrato e che riportiamo integralmente, è stata solo una delle tante lotte che Antonio mimava utilizzando un oggetto o un giocattolo che la rappresentava.

‹‹Danno botte alla Sirena, anche pietrate e colpi di martello. Lei si risveglia. Una persona piccolina le dà un’altra botta e la colpisce ancora. Le fa uscire sangue. Le dà ancora botte e ancora le esce sangue. Le lancia un cavallo contro che fa male alla Sirena in quanto la schiaccia; anche la macchina l’ha schiacciata››.

Domanda del terapeuta: ‹‹Cosa ha fatto di male la Sirena?››

Risposta: ‹‹Niente››.

‹‹Lottano ancora dentro la macchina. Le dà un’altra botta in testa con il pugnale. La sega. La Sirena si muove male, grida e piange. Cammina male, è zoppa. Le danno un altro colpo e la uccidono. È morta, ma continuano a dare botte alla Sirena. La Sirena è di nuovo viva, vuole scappare e loro la rincorrono e la trapanano. Lei scappa velocissima. Cerca di liberarsi ma non ci riesce. Qualcuno le pittura la faccia con il pennello. Non può camminare, infila la coda in un’auto. Gli altri scappano. Lei si tira dietro tutto (per entrare in macchina). Nessuno la libera. Grida: AIUTO!!!

Si è liberata, ma è ferita e le arriva un’altra casa addosso. Qualcuno la lega, lei non può liberarsi, è ferita, piena di sangue. Lei non aveva fatto niente (di male), la colpa è di loro. La Sirena prende il canotto. Il canotto la insegue e lei entra dentro e il canotto le fa male. Sale le scale con la coda. La Sirena guida la macchina. Tutti scappano.

Hanno fatto pace con la Sirena, sono insieme. Lei ha sprofondato con la macchina e gli altri l’aiutano. Le arriva una molla addosso. Qualcuno gliel’ha gettata. Le hanno sparato con i cannoni e l’hanno uccisa. È morta! Ma poi si è alzata e ha fatto male ai ladri. Si è vendicata. Ha preso una pietra e si è vendicata. Di nuovo è morta la Sirenetta ma si alza e lotta contro chi le vuole fare del male. E muore chi le voleva del male. Ma si rialza subito. La Sirenetta ha preso una pietra e l’ha colpito. Cade a terra svenuto. La Sirena rimane chiusa ed è morta››.

La fase delle domande

Dopo alcune sedute nelle quali vi erano continue ed incessanti lotte alle quali io, come unico spettatore, assistevo interessato, senza mai intervenire per farle cessare o per far diminuire la loro tragicità, iniziò per Antonio la fase delle domande, prima sui perché di queste lotte o sulle loro possibili conseguenze: ‹‹Cosa succede se Caino incontra Abele? Gli schiaccia la testa?›› ‹‹Cosa succede se Tarzan incontra i suoi nemici che lo vogliono uccidere?››. ‹‹Cosa fa Tarzan a un leone? lo uccide con il pugnale e poi si mangia il cuore vero?››

 In un momento successivo, progressivamente, i contenuti delle domande che prima erano quasi sempre di tipo tragico, o notevolmente aggressivo, gradualmente si modificarono per cui tendeva a sottolineare maggiormente qualche aspetto comico delle vicende o faceva domande che riguardavano argomenti miei personali di cui l’avevo reso partecipe. Gli avevo, infatti, confidato due ricordi personali: il primo riguardava un gran calcio che avevo ricevuto da una giumenta nella stalla del nonno quando ero piccolo, il secondo episodio riguardava il mio rapporto con un elefante indiano, sulla cui groppa avevo, come tutti i bravi turisti, percorso qualche centinaio di metri. Questi due animali diventarono punti focali sui quali amava impostare molte discussioni. La giumenta era diventata ai suoi occhi simbolo di offesa, aggressione e, quindi, di dolore verso i bambini innocenti. L’elefante, al contrario, l’aveva assurto a simbolo di difesa dei bambini verso tutto e tutti. Le domande riguardanti la giumenta erano di questo tipo: ‹‹Perché ti ha dato il calcio?›› ‹‹Cosa è successo quando ti ha dato il calcio?›› ‹‹Dove ti ha fatto male?›› ‹‹E tua madre cosa ha detto e cosa ha fatto?›› Le domande riguardanti l’elefante invece erano di tenore opposto: ‹‹Se la giumenta ti voleva dare un calcio e c’era il tuo elefante cosa avrebbe fatto?!›› ‹‹Se i bambini ti volevano buttare una pietra, il tuo elefante come ti avrebbe difeso?›› ‹‹Se una macchina ti voleva investire, il tuo elefante come avrebbe reagito?›› Inutile dire che quando gli rispondevo che il mio elefante avrebbe preso la giumenta e i bambini cattivi con la sua proboscide e li avrebbe fatti volare fino in cielo o che l’elefante con i suoi enormi piedi avrebbe schiacciato la macchina facendone una polpettina, il suo sorriso diventava smagliante e la sua gioia evidente.

Insieme a questi argomenti vi erano le domande con le quali amava paragonare persone, macchine e animali. I paragoni riguardavano la loro grandezza, il loro peso, le loro capacità aggressive o di far del male. Per cui erano di questo tenore: ‹‹Quanto pesa un camion?›› ‹‹Quanto pesa una macchina?›› ‹‹Se un camion si scontra con una macchina cosa succede?›› ‹‹Se un leone aggredisce un elefante chi ha la meglio?›› ‹‹Se Tarzan lotta con un uomo cattivo cosa gli fa?››

La fase dei ricordi aggressivi e violenti da condividere

In questa fase gli argomenti di discussione riguardavano i film: dell’uomo ragno, di Bud Spencer, di Pinocchio o di Franco e Ingrassia. Anche in questi film le domande riguardavano soprattutto le scene aggressive: l’uomo ragno che fa scoppiare tutta una casa; Pinocchio che uccide il Grillo parlante; Geppetto che rimprovera Pinocchio.

La fase dei giochi piacevoli da fare insieme e dei ricordi piacevoli da condividere

Gradualmente, però, a queste scene aggressive si aggiungevano e si sostituivano delle scene comiche presenti nei film di Bud Spencer e di Franco e Ingrassia. 

Per cui gli argomenti aggressivi scomparvero quasi totalmente sostituiti da un gioco piacevole da fare insieme. Giocavamo, ad esempio, con le schede per lo sviluppo logico e cognitivo “Voglia di crescere” nelle quali Antonio per poter scherzare e ridere insieme a me, faceva finta di sbagliare in modo tale da suscitare i miei commenti ironici. Pertanto associava il tavolo con le forbici affinché io, fingendomi scandalizzato, potessi dire: ‹‹Ma possiamo mai associare un tavolo con le forbici? Che devono fare le forbici, forse devono tagliare il tavolo?›› Oppure associava la tigre con lo scoiattolo affinché potessi commentare la cosa in modo ironico dicendo: ‹‹Ma possiamo mai collegare la tigre con lo scoiattolo? La tigre si deve forse mangiare lo scoiattolo saltando sui rami degli alberi come una scimmia?››

Lo stesso faceva per tutte le altre schede. Le sbagliava di proposito per avere l’occasione di ridere insieme a me. Altre sedute somigliavano molto, invece, a quello che facevamo noi da ragazzi alla sua età quando ci incontravamo. Uno degli argomenti di discussione preferiti erano i film che avevamo visto insieme. Per cui le frasi erano tutte del tipo: ‹‹Ti ricordi quando Tarzan si è lanciato dall’albero sui suoi nemici? Ti ricordi quando la sua scimmietta l’ha liberato?›› ‹‹Ti ricordi quando Tarzan ha tirato fuori il suo coltello e quel pancione è scappato via…?››  Ma, a differenza che in passato, nelle ultime sedute, accanto ai ricordi dei film, gli piaceva alternare delle domande più personali che mi riguardavano, ad esempio su come avrei trascorso le vacanze oppure amava fare dei commenti sulla fine delle lezioni scolastiche.

La fase dei racconti

Solo quando raggiunse un discreto benessere interiore amava dettare con molta serietà e mettendoci molto impegno, dei racconti che dovevano rappresentare le trame per dei film dei quali lui avrebbe voluto essere l’autore e il protagonista.

Titolo del film: ‹‹Golgostero va nelle zone del polo nord››.

 ‹‹Un giorno questo signore voleva andare in un bar a comprare una granita, ma poi vide un carabiniere che non lo faceva passare e stette tanto tempo ad aspettare che lo facesse passare. Poi, un giorno vide una cosa rossa caduta dal cielo, un fogliettino rosso. L’aveva fatto cadere un passerotto e lui lo prese e lesse tutto quello che vi era scritto: “Per entrare al bar, devi avere le chiavi, perché sennò non puoi entrare.” E così si procurò le chiavi ed entrò al bar. Nel bar c’erano tante cose buone da bere e bevette quasi tutto, ma poi gli venne un mal di pancia fortissimo, uscì fuori dal bar e vide delle notizie su dei giornali, dove c’era scritto: “Per farti passare il mal di pancia devi andare in bagno”. E così andò in bagno, stette un pochino seduto e gli passo tutto. Poi all’indomani decise di partire e così andò al polo nord. Poi vide orsi polari, cervi e un gatto delle nevi, che da lontano lo guardavano fisso-fisso. Allora cercò quasi di scappare ma il gatto lo guardò fisso- fisso perché voleva che stesse fermo. E poi cercò di nuovo di scappare e ci riuscì. Il gatto delle nevi si avvicinò pian piano per prenderlo, ma lui fece una corsa incredibile, si tuffò in acqua e il gatto delle nevi non lo vide più e se ne andò via.

Quando uscì fuori dall’acqua sentì freddo e voleva cercare casa, ma non la trovò. Ad un certo punto vide da lontano un signore con una barca, si avvicinò e gli chiese: “Senti signore mi potrebbe dire dove posso trovare una casa?” E il signore rispose: “Vai dritto- dritto, quando vedrai un cartello segnato, la casa la troverai a destra. Così lui camminò per tanto, tanto tempo, ad un certo punto vide da lontano una casa bellissima, bussò e qualcuno aprì e disse: “Chi sei? Cosa vuoi?” “Per favore,” rispose, ”vorrei entrare nella stanza perché è da tanto tempo che non ho una casa”. Quello gli disse: “Ma da tantissimo tempo?” E lui rispose di sì. A questo punto lo fece accomodare. Quando entrò vide una bella casa, tutta brillante, con una cucina, un salone e tre bagni. Ad un certo punto vide delle scale, dove sopra c’era la stanza. Così poi salì, e quando salì vide vicino al letto un bellissimo termosifone che però era spento. La vide tutta che era bella (la stanza), allora si spogliò e si coricò››.

Il racconto continuava nella seduta successiva…

‹‹Mentre dormiva (Golgostero) sognava tantissime bevande e tantissime cose buone da mangiare, ma poi, quando finì di sognare tutte queste cose da mangiare, sognò una torta con la panna con dentro uova, formaggio e fragole. Durò quasi molto il sogno! Mentre finì il sogno si svegliò e disse: “Cosa ho sognato?” Pensò, pensò, continuò a pensare ma poi disse fra sé e sé “Miiih, ho sognato una torta bellissima” ma si ricoricò. Intanto era arrivato quel signore a cui lui aveva bussato alla porta e disse: “Ti ho preparato il pollo con le patate, vuoi venire a mangiarlo?”. Lui rispose: ”Si voglio venire”. Intanto, prima si lavò le mani e poi andò. Vide questo pollo con le patate, bellissimo! E se lo mangiò tutto. Così gli venne un mal di pancia fortissimo poi disse: “ Con permesso” andò in bagno e vomitò sul lavandino. Poi entrò il signore e disse: “Perché hai vomitato sul lavandino?” Lui rispose: “Perché non ce la facevo più”. E il signore rispose: “Ah! perché non ce la facevi più?!” Così poi lo cacciò fuori e disse: “ Se ti viene voglia di mangiare vai in un altro posto, non più in questa casa!”. Così chiuse la porta il signore e lui restò fuori a cercare qualcosa da mangiare, ma poi sentì qualche suono di qualche magia, era un foglio di carta scritto con delle cose da mangiare: “Se hai fame trovi a sinistra un ristorante”. E lui così andò. C’erano persone che ballavano, suonavano e lui entrò e vide tantissime pizze buone, così decise di prenderne una. Prese poi due pizze, uscì fuori e se le portò. Arrivò in seguito in un’altra casa, bussò alla porta, aprì un signore che disse: “ Chi sei? Cosa vuoi?” “Sono uno che ha delle pizze, posso mangiarle a casa tua?” “Ma che ci fai con queste pizze?” Lui pensò e disse: “Mi è venuta un’idea, una pizza la do a te e l’altra la mangio io” “Ma io ti conosco”, rispose il signore“, “ mi ricordo quando mi hai visto nella barca e mi hai chiesto un’indicazione”.

(Antonio a questo punto passò dalla terza alla prima persona)

Io risposi: “Quando? Ah si, si me lo ricordo, mi ricordo quando mi hai detto che in quel cartello c’era scritto dove trovare una casa”. Il signore rispose: “Ah si, si… me lo ricordo perfettissimamente”.  Ed io risposi: “Visto che ora te lo ricordi, prendi una pizza tu e l’altra me la mangio io”

Così, cercai di dargli quella pizza e quel signore disse però di no! Poi insistetti molto, però vinse il signore dicendo di no. Così poi il signore chiuse la porta. C’era un cane ed io risposi: “Tieni, la vuoi la pizza?” Ma il cane non la volle. Così poi me ne sono andato per conto mio. Vidi un cartellino, cercai di posare quella pizza vicino al cartellino, ma non la posai, allora posai l’altra pizza e me ne andai per trovare un’altra casa tranquilla. Così poi vidi da lontano un’altra casa e pensai:”Miiih che bella casa”, ma poi quando mi avvicinai ancora di più dissi: “Ma questa casa è vecchia”. Cercai di entrare e vidi per terra sporcizia e da lontano vidi un tavolo e vidi anche una scopa per pulire tutto. Poi quando presi la scopa vidi un gattino, io mi allontanai e dissi al gattino: “Esci fuori”, prima lo dissi in modo leggero, poi forte e così lui uscì fuori. Così presi la scopa e pulii tutto- tutto. La sporcizia la buttai in campagna.

Aggiustai tutte le cose. Poi, quando aggiustai tutte le cose, cercai di sedermi. Appena mi sedetti sulla sedia questa sedia si ruppe ed io caddi per terra. Poi mi rialzai, mi sedetti su un’altra sedia e non caddi più. Poi, mentre stavo aprendo la pizza, arrivò un pipistrello che si posò sul tavolo. Sentii un rumore che si stava mangiando la pizza. Lo guardai e dissi: “ Senti pipistrello vattene via!” Lui non ha voluto ascoltare e se la mangiò quasi tutta (la pizza). Cercai di levare il pipistrello dal tavolo. Lui stava continuando a mangiare la pizza. Io cercavo ancora di levarlo, e mi stava quasi per mordere la mano. Ma per la fortuna che aveva il pipistrello non riuscii a toglierlo. Provai per tante volte ma poi mi morse il dito. Io cercai di togliere il dito dalla sua bocca e alla fine ci provai per tante volte, alla fine tolsi il dito dalla sua bocca. Mi ricordai di dirgli in quel modo forte “Vai via!” E lui andò via. E mi è rimasta solo un poco di pizza, me la stavo quasi mangiando ma c’era un topolino e lo schiacciai via in modo forte con la pizza. Cercai qualcosa per pulire la pizza, (sporca dal topolino) la trovai, ma non era quella adatta, perché era un cartone. Ma poi da lontano vidi una pezza, presi una scala, salii e presi la pezza e pulii tutta la pizza. Scesi dalla scala, presi la scala e la posai e mi avvicinai a quella sedia che non era rotta, mi sedetti e me la mangiai››.

Se paragoniamo questo racconto a quelli che faceva nella fase inziale, quando il suo malessere interiore era notevole, i miglioramenti nella capacità di strutturare frasi e periodi coerenti e lineari risultano notevoli. Altrettanto notevoli sono anche le differenze che riguardano i contenuti, i quali, in questa fase, se pur fondamentalmente tristi e ricchi di disavventure, riescono lo stesso ad essere illuminati dalla speranza, dalla gioia e dal desiderio della condivisione e della relazione. 

Il significato di queste fasi.

Quale significato possiamo dare a queste fasi?

L’unico che riusciamo a individuare è quello di una graduale diminuzione delle angosce e delle paure che permettono ad Antonio una migliore gestione del suo mondo interiore.

Quando le sue angosce sono a livelli molto alti, sembra che egli abbia solo la possibilità di cercare di rimuovere e allontanare dalla sua mente le paure ed i pensieri terrifici utilizzando delle stereotipie che non abbiano alcun contenuto che li possa collegare a quelle paure ed a quei pensieri (Fase degli elenchi).

Quando l’ansia diminuisce per cui il suo Io riesce ad affrontare meglio le paure ed i pensieri terrifici, egli può utilizzare le stereotipie per mimare e dare corpo a queste paure ed a questi pensieri (Fase delle battaglie espresse verbalmente e fase dei racconti aggressivi e violenti). 

Nella Fase delle domande il bambino cerca di comprendere e dare un significato etico agli eventi aggressivi e violenti che turbano la sua psiche. Può, quindi, in questa fase, riuscire a distinguere i buoni dai cattivi. I primi meritano di essere aiutati e difesi, i secondi meritano la giusta punizione. Cosa che nella fase precedente non riusciva a fare.

Il bambino a questo punto, sempre utilizzando il terapeuta, può fare qualcosa di più e di meglio: può, insieme a lui, condividere aggressività e violenza come spesso fanno i bambini normali tra loro (Fase dei ricordi aggressivi e violenti da condividere).

Soltanto quando il suo mondo interiore è diventato molto più sereno e disteso egli può far partecipe il terapeuta anche dei giochi e delle immagini comiche (Fase dei giochi piacevoli da fare insieme e dei ricordi piacevoli da condividere).

Infine, nella Fase dei racconti, può immaginare di porsi come un attore e autore di storie da rappresentare in qualche film. Storie nelle quali traspaiono i suoi bisogni di un luogo protetto e sicuro (una casa), i suoi bisogni di affetto (il cibo) da ricevere ma anche, è questa è la cosa più interessante, da condividere con altri (Lui pensò e disse “Mi è venuta un’idea, una pizza la do a te e l’altra la mangio io”).

N.B. Questa relazione è stata tratta da “Autismo e gioco libero autogestito” libro pubblicato nel 2013 dalla Franco Angeli. Attualmente abbiamo modificato il percorso terapeutico al fine di ottenere dei miglioramenti più rapidi, ma soprattutto più stabili nel tempo. A questo scopo non è più il terapeuta che segue il bambino ma sono i loro genitori, seguiti costantemente dal terapeuta, che instaurano con il loro figlio una piacevole e profonda relazione fatta di ascolto, empatia e tanti piacevoli giochi da fare insieme.  

 

La relazione della madre di Lorenzo è un altro esempio di come sia importante, anzi essenziale, l’approccio affettivo – relazionale nella terapia dell’autismo. 

Una madre racconta del figlio Lorenzo mentre effettua la terapia del Gioco Libero Autogestito

 Sono la mamma di Lorenzo, un bambino ora di 3 anni e tre mesi e all’epoca della prima diagnosi di disturbo dello spettro autistico di due anni e 10 mesi.

Lorenzo sino all’età di due anni ha avuto uno sviluppo normale e ha iniziato a parlare a circa un anno e mezzo. Ha frequentato il nido dai 14 mesi ed è sempre stato un bambino molto sereno.

Dopo i due anni abbiamo notato che Lorenzo non parlava più, non voleva più andare al nido, non giocava più con noi e con nessun’altra persona ed era cambiato notevolmente. Non voleva più stare con i nonni ma solo con noi genitori ed in particolare con me. Non ci guardava più e non si girava se veniva chiamato.

Ci siamo recati prima da un neuropsichiatra infantile, che ha sospettato un lieve disturbo dello spettro e ci ha consigliato di fare i test presso una struttura convenzionata. Cosi siamo stati presso lo Stella Maris di Pisa e dopo diversi test abbiamo ricevuto la diagnosi di disturbo dello spettro autistico medio- grave. Eravamo abbastanza increduli, perché sapevamo che Lorenzo aveva delle difficolta ma non avremmo mai immaginato una diagnosi del genere.

Nei giorni successivi durante delle ricerche su internet siamo venuti a conoscenza della terapia del gioco libero autogestito e leggendo le pagine del libro scritto dal Dottor Tribulato ci siamo messi subito in contatto con lui.

All’8 giugno risale il primo incontro e l’inizio della terapia. Questo momento ci ha cambiato la vita che ormai era stata stravolta in modo negativo da una diagnosi che noi personalmente non abbiamo mai contemplato al 100%.

Dopo il primo incontro abbiamo messo in atto tutti i consigli del Dottor Tribulato e Lorenzo già dopo la prima settimana era un bambino molto più aperto ai rapporti con noi familiari.  Giocavamo molto più di un’ora al giorno, rispetto a quello che ci avevano consigliato il Dottor Tribulato, sceglieva sempre Lorenzo i giochi e come giocare e noi cercavamo di fare poche domande e di divertirci con lui senza imporli degli insegnamenti.

Da subito avevamo notato che l’espressione del viso di Lorenzo era cambiata. Ci guardava, ci osservava, voleva giocare sempre con noi, al richiamo del suo nome si girava e sorrideva. Dopo il secondo incontro eravamo stupiti dei miglioramenti di nostro figlio, a tratti sembrava un miracolo e vedendolo cambiato ci veniva da piangere dalla felicita.

 Lorenzo ha smesso di andare al nido sempre su consiglio del Dottor Tribulato. Le giornate le trascorrevamo giocando senza fare troppo domande e assecondando lui e i suoi giochi, ci divertivamo con lui e anche ora continuiamo a farlo.

Lorenzo prima della terapia emetteva dei suoni con la bocca in maniera ripetitiva e non voleva più stare con nessuno, se non con noi. Dopo 1 mese dalla terapia Lorenzo non emetteva più quei suoni con la bocca o solo in alcuni casi, voleva giocare anche con le altre persone come i nonni e gli zii ed era tornato il bambino che avevamo conosciuto prima della sua chiusura.

Noi eravamo decisamente più tranquilli e abbiamo trascorso l’intera estate a giocare con lui e la sorella Marie più grande, seguendo tutti i consigli del dottor Tribulato. A luglio Lorenzo ha abbandonato la sua chiusura autistica, cosi come comunicato dal medico e ad Agosto ha iniziato a parlare, ogni giorno inseriva parole nuove.

Non nego che in tutti questi mesi abbiamo avuto delle difficolta, perché non andare al nido e a settembre sarebbe dovuto andare a scuola ha creato notevoli problemi anche fra me e mio marito, pero abbiamo superato tante difficolta e supereremo anche questa. Abbiamo iniziato a togliere il panno e a spiegargli cosa era il vasino ma abbiamo notato che era abbastanza oppositivo e su consiglio del medico abbiamo abbandonato l’idea per il momento.

Oggi dopo circa 5 mesi di terapia e di incontri con Dottor Tribulato ed il suo team pensiamo di essere stati molto fortunati ad aver incontrato loro e tutto quello che ci è stato comunicato che sarebbe accaduto si è realmente verificato.

Dopo aver avuto quella diagnosi siamo caduti nel buio più totale, vedevamo nostro figlio come un bambino con un problema grave, avevamo perso ogni speranza però non abbiamo mai pensato che nostro figlio era quella diagnosi.

Attualmente sono trascorsi 6 mesi dall’inizio della terapia e continuiamo a giocare e vivere la nostra vita con i nostri figli e Lorenzo interagisce sempre di più, anche con la sorella e con i bambini più grandi. Non ha tante possibilità di interazione con i suoi coetanei e vediamo che ha delle difficolta perché sembra un bimbo più piccolo rispetto agli altri della stessa età, ma siamo sicuri che continuando su questa strada Lorenzo arriverà ad essere al pari degli altri e ad avere anche lui degli amici come gli altri bambini.

Non condivido il modo in cui la medicina stia osservando i bambini, non condivido il modo in cui siamo stati trattati durante i test e la diagnosi e aver trovato una soluzione come quella del gioco libero autogestito ci ha reso genitori più tranquilli.

Per quest’anno Lorenzo non andrà a scuola e andrà sicuramente l’anno prossimo. Siamo profondamente grati al dottor Tribulato e al centro Logos e per noi sono stati preziosi.

Le cause della chiusura

Che cosa può essere andato storto? Che cosa nei primi mesi di vita ha potuto costringere questi bambini ad effettuare, non sappiamo quanto istintivamente o volontariamente, tale scelta così drammatica e radicale?

La nostra esperienza ci ha insegnato che gli eventi che possono avere inciso negativamente, disturbando il dialogo, la comunicazione e in definitiva la relazione tra il bambino e il mondo esterno, rappresentato dai suoi genitori e familiari, possono essere diversi. Non solo, ma possono sommarsi tra loro, poiché non sempre è sufficiente un’unica causa a costringere il bambino verso la chiusura e quindi verso quelle conseguenze delle quali abbiamo parlato sopra.

  1. In alcuni casi l’intimo dialogo tra il bambino e il suo ambiente di vita può essere stato influenzato negativamente a causa di una o più situazioni stressanti e difficili da affrontare.

 I suoi genitori e familiari possono essere stati influenzati negativamente a causa di pressanti necessità economiche; per la presenza di eccessivi e prolungati impegni lavorativi; a causa di conflitti coniugali o familiari; a causa della necessità di affrontare gli stress presenti nelle separazioni o nei divorzi. Altre situazioni ambientali nettamente negative possono essere state originate da malattie proprie o di qualche familiare, da eventi luttuosi che si sono abbattuti sulla famiglia, e così via.

La William riferisce dei gravi conflitti intrafamiliari nei quali, suo malgrado, era stata coinvolta: ‹‹A casa la guerra infuriava costantemente attorno a me››.[15] E ancora: ‹‹La tensione tendeva ad esplodere, mio padre umiliava e maltrattava mia madre, lei umiliava e maltrattava me. Entrambi avevano trovato vie di fuga e se ne servirono per anni, lasciandosi alle spalle una distruzione tanto più totale di quanto non avrei mai potuto far apparire nel mio piccolo mondo magico››.[16] E inoltre: ‹‹La famiglia era decisamente spaccata a metà, in una caduta a spirale che l’avrebbe precipitata a capofitto nel baratro infernale››.[17]

È evidente come l’ambiente familiare descritto dalla Williams, sia esattamente l’opposto di come dovrebbe essere, al fine di permettere una normale crescita di una piccola bambina. Quest’ultima avrebbe avuto bisogno di un ambiente tranquillo, senza la presenza di ansie e timori eccessivi e con il sostegno di genitori che, amandosi tra loro, avessero amato anche lei. Winnicott è lapidario quando afferma: ‹‹Al giorno d’oggi parliamo molto spesso di bambini disadattati: ma i bambini disadattati sono tali perché il mondo non è riuscito ad adattarsi correttamente a loro all’inizio e durante i primi tempi››.[18]

  1. Un abnorme uso degli strumenti elettronici.

      È sempre più diffusa l’abitudine di intrattenere mediante gli strumenti elettronici i bambini molto piccoli, a volte semplicemente per farli stare buoni, altre volte per facilitare l’alimentazione, altre volte ancora per avere il tempo e la possibilità di svolgere le attività che ci proponiamo di effettuare. Tuttavia tutti gli studi effettuati sono concordi nel ritenere molto negative le conseguenze a livello dello sviluppo di aree cruciali responsabili del linguaggio, dell’attenzione, della socialità, e della regolazione delle emozioni. [19]

  1. Può aver inciso pesantemente nella relazione con i minori un disturbo psicologico di una certa importanza, presente nella psiche degli adulti che hanno cura di loro.

In questi casi, a causa di uno dei tanti disturbi psicologici che possono essere presenti nella psiche degli adulti, questi possono presentare difficoltà a comprendere pienamente i bisogni, i vissuti e i problemi dei minori, ma soprattutto possono avere difficoltà nel rispondere in maniera serena, adeguata ed equilibrata ai loro bisogni psicologici e alle loro legittime richieste. Tra l’altro, in molti casi i disturbi psicologici, anche se non sono gravi, possono comportare problemi proprio nel campo della comunicazione, la quale è essenziale nello stabilire un rapporto relazionale con i bambini piccoli che permetta al loro Io di formarsi, crescere e svilupparsi armonicamente. Possono soffrire di questi problemi non solo le madri ma anche i padri, entrambi i genitori oppure i nonni, quando sono loro ad avere le maggiori responsabilità nella cura dei bambini, le baby sitter, le puericultrici dei nidi frequentati dai minori e così via.

  1. Può incidere negativamente sulle capacità relazionali degli adulti la scarsa o inadeguata esperienza necessaria per una corretta gestione di un bambino piccolo.

Dice Winnicott:

‹‹Ma perfino le madri devono imparare dall’esperienza ad essere materne. A mio parere esse dovrebbero affrontare il problema da questo punto di vista: l’esperienza insegna. Affrontandolo in un altro modo e credendo di dover studiare sui libri come diventare madri perfette sin dall’inizio, sbagliano››.[20]

Questa situazione, poco frequente nelle famiglie tradizionali è diventata, in questo periodo storico, frequente, a causa della mancata trasmissione dell’esperienza e dei saperi riguardanti la cura di un bambino, da una generazione all’altra. Tale situazione è causata dal notevole calo delle nascite, dalla diffusione di famiglie sempre più piccole e prive di fratelli minori con i quali fare tirocinio, ma anche e soprattutto dalle frequenti deleghe nella cura dei figli, alle quali sono oggi costretti i genitori. Tale impreparazione può accentuare l’ansia insita nei compiti di cura, rendendo difficile un sereno dialogo e rapporto con i propri figli. Pertanto, questi genitori possono avere difficoltà a stabilire con i loro piccoli un vero e saldo legame affettivo ed emotivo, oltre che un dialogo profondo ed efficace.

  1. Possono aver influito negativamente le indicazioni che spesso provengono da una società consumistica, iperliberale ed egocentrica come la nostra.

Sappiamo che molte società del mondo occidentale, sostanzialmente basate sulla produzione, sul profitto e sull’economia, giudicano come motivo del successo e della realizzazione degli adulti, non la maternità o la paternità, non il piacere e la gioia della cura e dell’educazione di un figlio, ma la ricerca della propria realizzazione, prevalentemente o esclusivamente nel campo professionale, lavorativo, economico e sociale, insieme alla ricerca, a volte sregolata, di gioie e piaceri molto semplici, poveri e banali. Pertanto, da questo tipo di società, le attenzioni e gli impegni degli adulti sono prevalentemente indirizzati e focalizzati su obiettivi e temi diversi e spesso contrastanti, rispetto a quelli necessari per svolgere correttamente il ruolo di genitore o comunque di educatore.

Il racconto di Dario, di nove anni, che presentava problemi psicologici che si manifestavano soprattutto negli apprendimenti scolastici, evidenzia chiaramente lo stato d’animo presente nei bambini i cui genitori sono assenti per motivi di lavoro.

Il pesce e il granchio

‹‹C’era una volta un pesce che nuotava notte e giorno, era triste e solo ed era in cerca di amici. Un giorno il pesce ha trovato un granchio che era in pericolo perché c’era una murena che se lo stava mangiando. Il pesce è corso incontro alla murena e l’ha cacciata via. Subito il granchio si è messo a correre per salvare il pesce. Da quel giorno il pesce non è rimasto più solo, perché è rimasto con il granchio››.

Domanda del terapeuta: ‹‹Perché il pesce era solo?››.

Risposta: ‹‹Il pesce era solo perché i genitori erano sempre a lavorare››.

  1. Possono aver influito negativamente nella relazione tra il bambino e il suo ambiente di vita le sofferenze, le ansie e le paure causate da malattie organiche delle quali il piccolo ha sofferto o soffre ancora.

I problemi organici hanno dei risvolti psicologici, sia sul bambino sia sui suoi familiari, che non si possono e non si devono trascurare. Soffrire di una malattia significa “stare male”. Quasi sempre questo “stare male” non riguarda solo il corpo ma anche la psiche del soggetto. Si sta male per la malattia della quale si soffre, si sta male per la condizione d’impotenza e a causa delle limitazioni conseguenti alla malattia, si sta male per tutti gli esami, le terapie mediche e chirurgiche o, peggio, i ricoveri in ospedale che bisogna sopportare. Purtroppo, spesso non si tiene nella giusta considerazione la fragilità psichica dei bambini, specie se molto piccoli ma anche quella dei loro familiari. Ci dimentichiamo che ogni patologia e ogni atto medico, che hanno una qualche componente traumatica, possono comportare delle sofferenze e quindi dei danni psicologici. Non è difficile quindi che, come conseguenza di questi problemi organici, possa insorgere, in alcuni bambini, specialmente in quelli psicologicamente più fragili, il bisogno di fuggire da una realtà eccessivamente frustrante e dolorosa.

  1. Un’altra concausa può essere legata all’uso sempre più diffuso di deleghe nel campo educativo e di cura.

È noto come la gestione del bambino piccolo, mediante gli asili nido, le baby-sitter o la collocazione dai nonni per un tempo eccessivo, possa provocare una condizione di fragilità nel piccolo essere umano che si sta formando, il quale invece, soprattutto nei primi anni di vita, avrebbe bisogno di vivere, crescere e svilupparsi accanto ai suoi genitori, in uno stabile, confortevole, caldo e sereno nido familiare. Questa fragilità, sommata ad altre situazioni stressanti o traumatiche, può anch’essa contribuire ad indurre delle gravi sofferenze le quali, a sua volta, possono spingere il piccolo a chiudersi in sé stesso.

  1. Vi è un’altra condizione che non riteniamo meno importante delle altre, che è legata a uno stile relazionale non adeguato.

Il modo di porsi nei confronti dei bambini piccoli, oltre che essere influenzato dalle caratteristiche di personalità, dal sesso e dalla realtà del momento, è condizionato anche dalle esperienze vissute durante tutta la propria vita. Pertanto, quando lo studio, i tirocini e gli impegni di tipo lavorativo e professionale modellano le capacità di dialogo e di relazione degli adulti in funzione di un’attività lavorativa e professionale, inevitabilmente sarà dato molto valore alle caratteristiche più utili in questi campi: come la vivacità, la grinta, la determinazione, la forza, l’intraprendenza. Caratteristiche queste molto diverse, anzi opposte, a quelle richieste nella cura e nella relazione con un bambino piccolo. Cura e relazione che richiedono invece comportamenti pacati, dolci, teneri e delicati, insieme a tanta pazienza e a notevoli doti e capacità comunicative ed empatiche.

  1. Cause organiche e genetiche

Per quanto riguarda le possibili cause organiche o genetiche, oggi spesso indicate come le uniche possibili cause dell’autismo, noi pensiamo che certamente non tutti i bambini nascano con la stessa sensibilità, per cui ciascuno di essi può resistere e reagire all’ambiente in modo differente. Pertanto, le capacità di resistere agli stress, alle frustrazioni o ai traumi, possono certamente dipendere anche da componenti genetiche o organiche.

Tuttavia, le esperienze che abbiamo avuto nel tempo ci confermano che i fattori ambientali, di tipo psicologico e relazionale, sono nettamente predominanti nella nascita dei vari disturbi psicologici presenti nell’infanzia. Cosicché, quando gli elementi ambientali negativi superano una certa soglia, anche il bambino che possiede un ottimo corredo cromosomico ed è privo di problematiche organiche, sarà inevitabilmente coinvolto in meccanismi psicologici che possono alterare in maniera più o meno grave i suoi comportamenti, le sue emozioni e i suoi vissuti interiori.

 

Cosa è necessario allora?

Se vogliamo che questi bambini ritornino a vivere normalmente, dobbiamo necessariamente diminuire al massimo e, se possibile, eliminare questa chiusura e difesa nei confronti degli altri e del mondo esterno a loro. Non abbiamo altre possibilità. Possiamo insegnare loro a leggere, scrivere, ad essere autonomi; possiamo insegnare loro dei sani ed adeguati comportamenti sociali; ma resteranno sempre con gravi carenze nello sviluppo della loro personalità e della loro emotività. Come si usa dire attualmente con un termine da noi detestato per il marchio di cronicità e di diversità che questo termine contiene, saranno sempre persone“autistiche”.

Per ridurre e se possibile eliminare questa condizione di chiusura in sé stessi dobbiamo creare tra loro e il mondo esterno, e soprattutto tra loro e i propri genitori, una relazione particolarmente vicina, intima, empatica, gioiosa, calda, dolce, che li spinga a riconquistare, o a conquistare per la prima volta, la fiducia di base nei confronti degli altri esseri umani e del mondo che questi, soprattutto le madri, rappresentano per un bambino molto piccolo.

Nel momento in cui essi abbandoneranno questa condizione di chiusura in sé stessi avranno la possibilità di sviluppare e far crescere la loro personalità, la socialità, l’intelligenza emotiva, le capacità logiche e intellettive, il linguaggio, l’autonomia personale e sociale e tutte le altre qualità caratteristiche degli esseri umani.

Quali strumenti abbiamo come genitori per far ritrovare al bambino la fiducia in loro, negli altri e nel mondo fuori di loro?

Allo scopo di creare attorno al bambino un ambiente il più accogliente e gioioso possibile:

  • Intanto è bene evitare in maniera totale l’uso degli strumenti elettronici. I quali spesso sono da questi bambini utilizzati proprio per perdersi nel loro mondo interiore, e allontanarsi dalla realtà.
  • Evitiamo, per quanto possibile, le categoriche richieste.

Uno dei tanti difficili cambiamenti che dobbiamo apportare nel rapporto con questi bambini è l’evitare di far loro delle categoriche richieste o peggio ancora delle imposizioni, poiché queste sono percepite con notevole sofferenza e sospetto. Spesso le richieste che facciamo sono interpretate da loro come dannose, poiché tendono a cambiare quello stato e clima interiore di uniformità e di immobilità che permette a questi bambini di acquisire una certa tranquillità e sicurezza.

Per tale motivo, anche a causa della cattiva opinione che essi hanno del mondo in generale e degli esseri umani in particolare, questi minori hanno molte difficoltà nell’accettare e quindi soffrono, quando gli altri: genitori, educatori, insegnanti o tecnici della riabilitazione, chiedono loro di fare o non fare una determinata azione; di attuare o non attuare un determinato comportamento; di dire o non dire determinate parole o frasi. Ad esempio: ‹‹Saluta la nonna››; ‹‹Dobbiamo andare via, dai un bacio al nonno››; ‹‹Bevi tutto il tuo latte››; ‹‹Siediti bene››; ‹‹Non ti alzare››; ‹‹Non ti sporcare››; ‹‹Lavati le mani›› e così via. Questi bambini così sensibili, avvertono ogni richiesta come una violenza gratuita da parte di chi li circonda, poiché ritengono che le persone che chiedono qualcosa, non tengono nel giusto conto i loro limiti e le loro notevoli difficoltà emotive. In definitiva non stanno rispettando i bisogni, dolorosamente presenti nella loro psiche.

Ciò accentua in loro il distacco e la sfiducia nel mondo fuori di loro, poiché si convincono ancor più che gli altri sono cattivi e che il mondo nel suo insieme è malvagio, ingiusto, prepotente e poco corretto nei loro confronti.

  • Non chiediamo di effettuare attività da noi desiderate ma da loro non amate.

Questo è l’impegno più difficile da attuare e mantenere. In noi adulti è quasi insito essere, nei confronti dei bambini, degli educatori che hanno il compito di scegliere e proporre ciò che pensiamo sia per essi utile, necessario, interessante o importante. Tuttavia, per quanto riguarda i bambini con sintomi di autismo questo è l’errore più comune ma anche il più grave: considerarli normali dal punto di vista psicologico ma neurologicamente carenti di molteplici capacità, alle quali sopperire mediante svariati stimoli e terapie. È invece è esattamente il contrario. Essi, dal punto di vista psicologico, sono notevolmente disturbati ma possiedono, almeno in potenza, normali capacità e qualità. Non bisogna quindi ignorare il loro mondo interiore nel quale, come abbiamo visto, imperversano paure e terrori, ansie e angosce, diffidenza e chiusura. Per tale motivo ogni proposta che viene dall’esterno durante le varie terapie che sono consigliate o durante le attività scolastiche, nella condizione psichica nella quale si trovano, è da loro avvertita come un’imposizione e una grave indifferenza nei confronti delle emozioni delle quali soffrono.

In definitiva, questo tipo di approccio che sottovaluta le loro necessità e i loro bisogni psicologici, nonché le loro possibilità, rischia di accentuare la diffidenza e la ripulsa nei confronti del mondo e delle persone che li circondano e quindi rischia di peggiorare la loro condizione psichica globale, con conseguente accentuazione della chiusura ed estraniamento dalla realtà. Se invece riusciremo a rispettare fino in fondo e senza preclusioni, le emozioni di questi bambini, ci accorgeremo molto presto come in realtà le loro capacità di base non sono carenti ma, semplicemente, non possono essere espresse in maniera piena, a causa della presenza di un mondo interiore particolarmente e gravemente disturbato.

Per tale motivo, soltanto in un secondo momento, quando avremo stabilito con loro una buona relazione e quando le loro emozioni si saranno normalizzate, potremo iniziare a proporre qualche gioco o attività che pensiamo possa divertirli e interessarli oppure inserirli o reinserirli nelle attività scolastiche che avevamo sospeso.

  • Aspettiamo che siano loro a stabilire quando e come avere con noi un contatto fisico.

Anche questo comportamento è difficile per l’adulto, specie per un genitore o un familiare. Tuttavia, è un comportamento necessario per dare un chiaro segnale di rispetto dei loro sentimenti e delle loro emozioni e bisogni. Come dire: ‹‹Io ci sono. Io sono qui vicino a te, ma non ho alcuna intenzione di toccarti né tantomeno costringerti a un abbraccio che tu ancora non cerchi e che ti farebbe soffrire maggiormente. Quando il nostro rapporto sarà più maturo e sano, quando tu sarai disponibile, le mie braccia saranno pronte ad aprirsi per accoglierti con gioia››.

  • Giochiamo ogni giorno con loro utilizzando il Gioco Libero Autogestito.

Utilizziamo per almeno un’ora al giorno da parte di entrambi i genitori (in totale quindi di almeno due ore al giorno), uno strumento vecchio come la stessa umanità, anzi ancora più antico, poiché prima della comparsa dell’uomo sulla terra era già usato dai cuccioli di moltissimi animali: questo prezioso strumento si chiama semplicemente gioco.

Se il gioco libero e quello guidato sono per questi bambini impossibili o poco utili, la stessa attività di gioco è invece perfettamente utilizzabile quando è attuata insieme a degli adulti, se questi riescono a tenere conto della realtà interiore di tali particolari soggetti.

In particolare, è necessario conoscere e accettare che in loro sono presenti una chiara sfiducia e anche paura nei confronti degli esseri umani e del mondo che li circonda. Sfiducia e paura che li costringono alla difesa, piuttosto che all’accoglienza delle idee e degli interventi che provengono dall’esterno. Sfiducia e paura che li portano a rifiutare e opporsi a qualunque richiesta venga dagli altri, giacché viene da loro giudicata come violenta costrizione e imposizione (indifferenza e opposizione ai giochi proposti dagli altri bambini o dagli adulti).

Inoltre, lo stato d’iperattivazione mentale, di disfunzionalità nella gestione delle emozioni e dei pensieri, con cui sono costretti a confrontarsi in ogni momento, non permette loro di ascoltare con serenità ed equilibrio le indicazioni, le necessità e i bisogni degli altri, così da regolare e armonizzare con questi le loro azioni e i loro comportamenti. Pertanto, ogni stimolo che rivolgiamo loro per eseguire dei particolari giochi o attività, che a noi adulti sembrano essere interessanti ed educativi li blocca, li mette in ansia, li disturba.

È inoltre necessario comprendere e accettare che nell’animo dei soggetti con sintomi di autismo possono essere presenti delle emozioni intense che li costringono, specialmente quando si trovano in una fase nella quale non è presente una totale chiusura, ad effettuare dei giochi caotici, aggressivi e distruttivi. In questi casi, se prevale in noi un atteggiamento educativo e di controllo, saremmo portati a respingere tale tipo di attività. Tuttavia, tenendo conto del loro bisogno di dar sfogo a queste emozioni negative, tranne che i giochi proposti e attuati non comportino un reale pericolo per loro e per gli altri, la nostra accettazione deve includere anche questo tipo di attività.

Da tener presente, inoltre, che la notevole ansia della quale soffrono li costringe a utilizzare gli stessi giochi per molto tempo (giochi interminabili) al fine di diminuirla mediante un comportamento ripetitivo. In questi casi se l’adulto acconsente a questo loro bisogno, senza stancarsi e senza annoiarsi, scoprirà presto come questo suo momentaneo sacrificio sia stato prezioso per permettere al proprio bambino di iniziare o riprendere il cammino della crescita affettivo–relazionale che si era bloccato o interrotto;

Altra attenzione da parte degli adulti bisogna avere alla difficoltà che hanno questi bambini nell’affrontare le frustrazioni, per cui non accettano di sbagliare o perdere nei giochi che riescono ad effettuare. Per tale motivo, almeno inizialmente, bisogna evitare loro questo tipo di frustrazione facendo in modo che possano vincere sempre e in ogni gioco eseguito con gli altri.

Nel Gioco Libero Autogestito la conduzione e la gestione delle attività sono affidate completamente al bambino con problemi. Questi sceglierà il tipo di gioco, la sua durata, i modi con i quali eseguirlo. Egli può decidere, inoltre, quando e con quale altro gioco sostituire quello che in un determinato momento non è più di suo interesse. [21]

Come vivere il Gioco Libero Autogestito

  1. Durante l’attività del Gioco Libero Autogestito la nostra presenza fisica non deve mai essere avvertita come invasiva e coartante. Nella fase iniziale, se è necessario, dobbiamo riuscire a restare in un angolo, in silenzio, ma con l’animo attento, disponibile, affettuosamente vicino, fino a quando non avvertiamo che il bambino è disponibile all’incontro con noi e pertanto cerca la nostra collaborazione all’attività o al gioco intrapreso.
  2. Per ottenere il massimo del profitto è necessario lasciarsi andare durante il gioco a un rapporto profondo, intimo ed empatico con il bambino, ricordando e ripensando alla gioia e alla gratificazione provate nella nostra infanzia, quando avevamo la possibilità di giocare con un compagno, o ancora meglio, con il proprio padre o con la propria madre. In definitiva, il ritornare per qualche ora bambini, permette a noi adulti di capire e partecipare di più e meglio.
  3. Accettiamo e collaboriamo ai suoi giochi, anche se questi possono sembrarci inutili, sciocchi, ripetitivi o tendono a manifestare ed esprimere la sua aggressività o il suo disordine interiore dei quali vorrebbe liberarsi. Accettiamo e collaboriamo ai suoi giochi o alle sue attività senza giudicarli e quindi senza mai correggere o redarguire il bambino. Non è assolutamente importante quello che fa o non fa, ma il modo con il quale noi riusciamo a fargli vivere il piacere e l’intesa che si crea, tra noi e lui, durante il gioco. Questo piacere e questa intesa, abbiamo potuto constatare, sono notevolmente efficaci per renderlo più sereno e tranquillo ma soprattutto più fiducioso verso di noi. E poiché noi in quel momento rappresentiamo la realtà esterna a lui e quindi il mondo del quale aveva paura e dal quale si era allontanato, la fiducia e la gioia che in quelle ore egli proverà nei nostri confronti si rifletterà sul suo benessere personale e relazionale e gli permetterà di aprire una breccia nel muro di diffidenza che aveva creato per difendersi dalla sofferenza. Quest’apertura verso gli altri e verso il mondo fuori di lui sarà preziosa, poiché potrà liberare tutte le energie presenti nel suo Io, così da poterle indirizzare verso una normale crescita affettivo-relazionale, che avrà importanti ricadute positive anche sul piano cognitivo e comportamentale.
  4. Cerchiamo di assumere il semplice ruolo di amici e compagni di gioco e di avventura. E quindi tralasciamo per qualche ora la classica funzione di controllo e indirizzo, che tende a spronare, criticare, rintuzzare e rimproverare al bambino ogni comportamento o atteggiamento non idoneo. Evitiamo, quindi, frasi come queste: ‹‹Vieni, giochiamo con il trenino che ti ha portato Babbo Natale, ma attento a come lo maneggi perché è delicato e si potrebbe rompere››; ‹‹Non sbattere la macchinina sul muro, potrebbe sfasciarsi e non più funzionare››; ‹‹Se vuoi fare una costruzione falla bene e in modo ordinato!››; ‹‹Abbiamo giocato con i puzzle, prima di prendere un altro giocattolo, rimettiamo a posto tutti i pezzi nella loro scatola››. Come abbiamo già detto, la funzione educativa non è assolutamente idonea per i bambini con disturbi dello spettro autistico, pertanto la utilizzeremo in un secondo momento e con molta gradualità, solo quando il bambino avrà abbandonato definitivamente la sua condizione di chiusura.
  5. Per ottenere dei buoni miglioramenti gratifichiamolo, più che con le parole con i fatti, accettando di buon grado di collaborare ai suoi giochi, qualunque essi siano, anche se sono ripetitivi, o li giudichiamo assolutamente sciocchi, inutili o anche aggressivi. Allo stesso modo accetteremo i suoi comportamenti, anche se potranno apparire disturbanti, strani, particolari o non confacenti alla sua età.
  6. Poiché questi bambini, nei loro giochi, preferiscono utilizzare, un po’ come i bambini piccoli, oggetti veri, permettiamo loro di giocare con questi, piuttosto che con i soliti giocattoli di plastica. E poiché amano la musica e i suoni dolci li rilassano, lasciamo a loro disposizione anche qualche strumento musicale.[22]

A quali giochi partecipare?

La risposta a questa domanda è semplice: ‹‹A quasi tutti››. [23] Tranne che non siano giochi sessuali, o giochi nei quali il bambino potrebbe fare realmente del male a se stesso o agli altri.

Le iniziative del bambino possono essere di vario tipo e, soprattutto nella fase iniziale, possono essere anche molto semplici, banali e lontane dalla nostra concezione di gioco, come: versare acqua da un recipiente all’altro, accendere e spegnere le luci in continuazione, mettere in fila una serie di oggetti, inserire dei cubetti uno per volta dentro un contenitore oppure al contrario riversare a terra tutti gli oggetti che si trovano in un contenitore, aprire e chiudere un ombrello oppure girarlo a terra, fare dei pezzetti di carta per poi farli volare come fossero tante farfalline dal balcone, e così via.

Quando e chi dovrebbe utilizzare il Gioco Libero Autogestito.

Poiché l’età è importante, più giovane è il soggetto più facilmente e rapidamente si può modificare una struttura mentale ed emotiva, l’attività del Gioco Libero Autogestito dovrebbe essere effettuata il più presto possibile. Questo vivere insieme con degli adulti, molto meglio se questi adulti sono i loro genitori, un’attività gratificante e piacevole, permetterà al bambino di raggiungere una maggiore serenità interiore e una maggiore apertura e fiducia negli altri, nel mondo e in se stesso. Cosa che, a sua volta, consentirà di ottenere dei notevoli miglioramenti con graduale riduzione e poi scomparsa dei gravi sintomi presenti.

Abbiamo potuto constatare negli ultimi anni di ricerche su questo argomento come l’efficacia di questo tipo di gioco, quando è condotto, dai genitori sia nettamente superiore, rispetto a quando viene utilizzato soltanto da un terapeuta o da un altro adulto anche qualificato. Pensiamo che ciò sia dovuto a tre fattori fondamentali:

  1. il primo riguarda proprio l’istintivo bisogno, presente in ogni essere umano, bambino o ragazzo che sia, di volersi ben relazionare soprattutto con i propri genitori.
  2. Il secondo motivo che scorgiamo, altrettanto importante, è che quando sono i genitori ad applicare tale prezioso strumento terapeutico, si modificherà gradualmente il loro stile educativo e relazionale, per cui questa metodica continuerà a produrre effetti positivi anche al di fuori degli specifici momenti di gioco. Viceversa, se sono solo gli specialisti o gli educatori ad attuare questo tipo di terapia, i miglioramenti che essi potranno ottenere rischiano di essere frustrati dai comportamenti poco idonei dei genitori.
  3. Inoltre, da parte di papà e mamma vivere l’esperienza del Gioco Libero Autogestito è importante affinché si abituino a tralasciare il loro ruolo educativo in favore di quello relazionale.

D’altra parte, come abbiamo detto, il ruolo educativo attuato nei confronti di un bambino che presenta disturbi autistici è assolutamente inutile e controproducente, essendo questi bambini da liberare e non da educare. Il nostro compito consiste quindi non nell’insegnare loro qualcosa ma nel liberarli dalle angosce che sconvolgono e scuotono il loro animo. È necessario liberarli dalle paure che attanagliano la loro mente e dalla scarsa fiducia che essi hanno nei confronti degli esseri umani e del mondo in cui vivono. È indispensabile liberarli dall’aggressività manifesta o repressa e dalla disfunzionalità emotiva ed ideativa che può invadere la loro mente e infine è importante liberarli dall’abnorme eccitazione che essi provano, che condiziona la loro attenzione, le loro azioni e tutti gli apprendimenti.

 

[1] Morello P. C. (2016), Macchia, autobiografia di un autistico, Salani Editore. Milano, p. 28.

[2] Morello P. C. (2016), Macchia, autobiografia di un autistico, Salani Editore. Milano, p. 18.

[3] Grandin T. (2011), Pensare in immagini, Trento, Erikson, p. 42.

[4] Grandin T. (2011), Pensare in immagini, Trento, Erikson, p. 49.

[5] Williams D. (2013), Nessuno in nessun luogo, Roma, Armando Editore, pp. 11.

[6] Williams D. (2013), Nessuno in nessun luogo, Roma, Armando Editore, p. 11.

[7] Williams D. (2013), Nessuno in nessun luogo, Roma, Armando Editore, p. 63.

[8] Williams D. (2013), Nessuno in nessun luogo, Roma, Armando Editore, p. 11.

[9] Williams D. (2013), Nessuno in nessun luogo, Roma, Armando Editore, p. 177.

[10] Williams D. (2013), Nessuno in nessun luogo, Roma, Armando Editore, p. 24.

[11] Williams D. (2013), Nessuno in nessun luogo, Roma, Armando Editore, p. 45.

[12] Bettelheim B. (2001), La fortezza vuota, Garzanti, Milano, p. 64.

[13] Winnicott D.W. (1973), Il bambino e la famiglia, Firenze, Giunti – Barbera, p. 136.

[14] Tutti i nomi sono di fantasia.

[15] Williams D. (2013), Nessuno in nessun luogo, Roma, Armando Editore, p. 36.

[16] Williams D. (2013), Nessuno in nessun luogo, Roma, Armando Editore, p. 15

[17] Williams D. (2013), Nessuno in nessun luogo, Roma, Armando Editore, p. 15.

[18] Winnicott D.W. (1973), Il bambino e la famiglia, Firenze, Giunti – Barbera, p. 130.

[19] Fronte M. (2024), Neonativo Digitale, in Focus, 108, 2024.

[20] Winnicott D. W. (1973), Il bambino e la famiglia, Firenze, Giunti – Barbera, p. 59.

[21] Tribulato E. (2013), Autismo e gioco libero autogestito, Milano, Franco Angeli, p. 110.

[22] Morello P. C. (2016), Macchia, autobiografia di un autistico, Milano, Salani editore, p. 69.

[23] Tribulato E. (2013), Autismo e gioco libero autogestito, Milano, Franco Angeli, p. 111.

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