Disabilità e famiglia

Disabilità e famiglia

 

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La famiglia in cui è presente  un bambino con problemi, molto spesso, al momento in cui viene coinvolta da questo evento, non è diversa dalle altre.

Certamente il vivere quotidianamente questa realtà così difficile e a volte drammatica, sottopone questa famiglia a prove e difficoltà non indifferenti, sia di carattere psicologico, che economico e di vita pratica.

Le modalità  del vissuto e le conseguenze che ne hanno i singoli componenti: genitori, altri figli e  familiari, dipendono da molti fattori:

•    le caratteristiche psicologiche di ognuno dei coniugi e degli altri familiari;

•    le dinamiche relazionali tra loro, con gli altri figli e con i parenti;

•    le possibilità economiche;

•    le caratteristiche del tessuto sociale;

•    la presenza di una rete di operatori e servizi efficienti ed efficaci.

Non è infatti uguale il modo in cui viene affrontato un evento stressante: vi sono caratteristiche di personalità che possono portare l’individuo a viverlo con serenità, coraggio e determinazione oppure a struggersi dal dolore fino a fuggire con disperazione da esso, ignorandolo o facendo finta che non sia mai successo.

Ciò dipende in parte dall’ottimismo o dal pessimismo di base, che ognuno di noi si porta dentro, ma soprattutto dipende dal substrato culturale in cui siamo stati educati: substrato emarginante o accogliente rispetto alla malattia e alla diversità.

É inoltre determinante l’esistenza o non di problemi personali di tipo nevrotico, e quindi la presenza di conflitti interiori non risolti che possono portare ad ansie eccessive, a paure o a modi incongrui nelle modalità di approccio al problema.

Il dialogo esistente nella vita familiare, la presenza di un amore profondo, l’aiuto e l’assistenza reciproca, un rispettoso e caldo rapporto tra i vari membri della rete affettiva, fanno da presupposto positivo all’accoglienza e alla gestione positiva del bambino disabile.

Al contrario la scarsità di dialogo, il distacco o la conflittualità coniugale, la mancanza di una rete familiare efficace renderanno difficili e più problematiche l’accoglienza e la gestione.

In questi casi sono frequenti  le accuse reciproche: “É colpa tua, non sei stata attenta; hai fatto delle cose che non dovevi fare.” E viceversa : “Non hai fatto ciò che dovevi fare…Hai una tara ereditaria di cui dovevi tenere conto, sei un incosciente!”

Le accuse possono essere rivolte dai genitori a se stessi: ”É colpa nostra dovevamo comportarci in altro modo e non l’abbiamo fatto… Non dovevamo avere questo figlio data la nostra età e invece l’abbiamo voluto.” E così via.

Sono frequenti, inoltre, le riflessioni e le accuse agli altri o al destino, del tipo: “É qualcosa che meritavamo... Qualcuno voleva il nostro male… Qualcuno era invidioso di quello che abbiamo, della felicità della nostra famiglia.”

O alla divinità: “Dio ci ha voluto punire... Ci vuole mettere alla prova... Ci ha abbandonato.”

In questi casi sono facili le depressioni e le ansie individuali, l’accentuarsi dei dissapori coniugali, con conseguente talora abbandono da parte di uno dei due, della famiglia e quindi del problema.

    Fondamentali sono, inoltre, i rapporti parentali e sociali che questa famiglia  ha: se adeguati e positivi possono aiutare ad affrontare con serenità e ottimismo questo vissuto; se negativi, scarsi o assenti possono accentuare e aggravare il problema con i loro errati comportamenti, interventi ed atteggiamenti. La conflittualità tra i coniugi, le separazioni, i divorzi, così frequenti nella nostra società occidentale, complicano di molto la gestione di un bambino che, per le sue caratteristiche, avrebbe bisogno di un ambiente sereno, equilibrato e stabile.

Influenza sugli altri fratelli.

L’influenza che può avere un bambino con disabilità sugli altri fratelli, dipende da come viene vissuta questa realtà dai genitori, ma anche da come viene fatta vivere ai figli.

Se la presenza di un bambino con difficoltà viene avvertita con serenità e ottimismo e se l’impegno maggiore per la sua educazione non preclude, ma anzi rafforza, il legame della coppia e della famiglia, nessuna paura, il bambino disabile non potrà che avere un effetto positivo sia sui genitori sia sugli altri figli.

L’apporto degli operatori.

 

Il modo con cui un bambino disabile sarà accolto, aiutato, integrato nella sua famiglia e il modo con cui questa saprà trovare delle strategie di cambiamento per vivere serenamente e con grande impegno questo evento difficile, certamente dipende da fattori individuali, relazionali, sociali ed economici, ma dipende anche molto dagli operatori che questa famiglia incontrerà nella sua strada. Affrontare nel modo più opportuno questa realtà, che non é certamente lieta, questo avvenimento che non è certamente facile, dipende in gran parte dal modo in cui gli operatori: medici, psicologi, pedagogisti, infermieri, assistenti sociali, insegnanti, amministrativi si porranno nei confronti di questa famiglia.

La loro preparazione e capacità nel dare risposte adeguate e psicologicamente valide, la loro sensibilità e disponibilità sono fondamentali per il benessere psicologico, relazionale e sociale dei genitori e della famiglia del disabile nel suo insieme.

É fondamentale infatti il modo di porsi nei loro confronti  fin dal momento in cui il problema viene evidenziato, anzi soprattutto nel momento in cui viene evidenziato.

Sarà sicuramente più traumatizzante l’impatto psicologico se, ad esempio, un pediatra, un’ostetrica o il medico di famiglia,  si saranno limitati soltanto a sottolineare le  difficoltà che avrà quel bambino invece di  indicare il modo migliore per affrontare il problema, una strada da percorrere con il loro aiuto, un programma di recupero, una speranza reale e concreta.

A questo riguardo ricordo ciò che mi riferì la mamma di un bambino Down: “Dopo qualche ora dalla nascita del mio bambino, mentre ancora stavo cercando di riprendermi da questo evento così difficile, mi si avvicinò un’ostetrica in compagnia di un dottore. Mi dissero che quello che era nato era un bambino Down. Io allora ero molto giovane e non sapevo neanche che cosa significasse questo termine. Mi spiegarono che mio figlio sarebbe stato un deficiente e poi, forse per consolarmi, aggiunsero che sarebbe stato così deficiente che non si sarebbe neanche accorto del suo handicap. E per finire mi spiegarono che sarebbe stato e sarebbe vissuto come un vegetale.

 

Quando ritornai a casa non sapevo cosa fare, pertanto non facevo niente; lo guardavo soltanto, mentre stava sdraiato nel suo lettino.”

 A questo punto del racconto, spinto dal mio viziaccio di sdrammatizzare con qualche battuta di spirito, la interruppi chiedendo: “Signora, ma cosa aspettava? Aspettava forse che al suo bambino spuntassero le foglioline dalle braccia, per darsi da fare?”

“Infatti, continuò la mamma, per diversi mesi non feci nulla, aspettavo non so che cosa. Ad un certo punto mi accorsi con mia grande meraviglia che quello che mi era stato descritto come un bambino - vegetale, si muoveva come gli altri bambini, mi sorrideva come ogni bambino sorride alla sua mamma, mi accarezzava il viso quando lo cambiavo come fanno i bambini veri. Solo allora, ma già erano passati diversi mesi, mi diedi da fare e cominciai a stimolarlo e a parlargli come fanno tutte le mamme con i loro piccoli.”

Questo bambino a cui era stata prospettata una vita da vegetale, stimolato adeguatamente, andò a scuola a sette anni che già sapeva leggere e scrivere. A nove anni effettuava moltiplicazioni e divisioni. Attualmente frequenta le scuole superiori.

Pensando a questo argomento non potrò mai dimenticare il volto di una maestra che timidamente mi si era avvicinata mentre visitavo un altro bambino, affinché dessi un’occhiata alla bambina più grave che si trovava proprio nella sua classe. Era una bambina con tetraparesi spastica. Il suo corpo non rispondeva alla sua mente se non con movimenti scomposti e sgraziati. Non parlava, si sbavava, non era in grado di deambulare ed i movimenti delle mani erano notevolmente compromessi dalla spasticità e dai riflessi patologici. Mi riferì con le lacrime agli occhi la storia di questa bambina la quale, l’anno prima, era stata bocciata in quanto non era in grado, non solo di leggere o scrivere ma neanche di parlare. “Io- mi riferì la maestra – l’ho avuta quest’anno nella mia classe e rappresenta il mio quotidiano cruccio in quanto non so come poterla aiutare. Spesso la notte piango pensando a questa mia incapacità.”

Il successivo incontro lo dedicammo a questa bambina. Fu subito chiaro che aveva un’intelligenza normale se non superiore agli altri bambini. Ai test di performance dava delle risposte inequivocabili. Quando riferimmo il risultato dei test alla maestra questa aggiunse: “Mi deve scusare dottore, forse è una mia impressione ma, mentre spiego e scrivo alla lavagna, dai suoi movimenti scomposti e dai mugolii che emette ho come l’impressione che capisca quello che scrivo. È come se reagisse per cercare di comunicare, a modo suo, la sua approvazione o disapprovazione.”

Non fu difficile con un piccolo espediente (domande a scelta multipla) capire che la bambina sapeva leggere perfettamente. Quando per l’ultima volta vedemmo la bambina per un controllo, stava per completare la scuola media. Durante l’ultima verifica la bambina, ormai ragazza, seguiva regolarmente il programma della classe e ci stupì per le sue capacità nella matematica, tanto che noi, per i nostri scarsi, lontani ricordi di questa materia non riuscivamo più a seguirla nelle complesse operazioni che effettuava.

I motivi per cui ho voluto riportare questo episodio sono diversi:

1.    spesso le persone comuni ma purtroppo anche gli operatori, rimangono come paralizzati  ed incapaci di agire con intelligenza ed acume, bloccati dalle prime impressioni o da quanto letto o studiato in vecchi libri di scuola. “Se io ho letto, ho saputo, ho studiato che è così deve essere così.”  Vengono così a tramandarsi per generazioni antichi pregiudizi. Inoltre, il che è peggio, questi operatori tendono anche a trasmettere e a trasferire agli altri i loro limiti, le loro incapacità, i loro pregiudizi, le loro false idee;

2.    spesso l’apparenza inganna. Molti bambini apparentemente gravi hanno notevoli capacità che non si riesce a far emergere a causa dei nostri limiti o per le scarse o limitate conoscenze;

3.    molte volte viene riferito al bambino un problema che è invece nostro e che non riusciamo a risolvere adeguatamente.

Da quanto abbiamo detto è evidente che l’intelligenza degli operatori, il loro intuito, la loro sensibilità, la loro capacità professionale, ma anche la loro apertura mentale saranno determinanti per il minore ma anche per la sua famiglia e per la società.

É necessario, infatti, che noi operatori sappiamo coniugare  il realismo alla speranza, l’obiettività all’ottimismo, la programmazione più precisa ad una grande  duttilità.

Gli operatori che la famiglia incontra sono numerosi: si inizia molto spesso con gli infermieri e medici di un  reparto di ostetricia. Si continua poi con il pediatra e il personale dei reparti di neuropsichiatria infantile e quindi con gli operatori addetti alla  riabilitazione. Quando il bambino sarà più grande, entrerà in scena anche il personale scolastico o quello dei centri di assistenza. Per non parlare degli impiegati ai vari sportelli degli uffici che gradualmente saranno contattati e quindi coinvolti nel bene e nel male da questa famiglia.

Questo personale, quindi, deve sviluppare e dimostrare notevoli capacità se vuole essere di valido aiuto.

 

 Ad esempio esso deve saper vedere il problema in modo globale: non soltanto l’organo o la funzione interessata ma tutto il bambino. Non soltanto il bambino ma anche la sua famiglia. Non soltanto la sua famiglia ma anche l’ambiente sociale di provenienza. Questa che potremmo chiamare “visione orizzontale del problema” è necessaria quanto la “visione verticale” che  vede lo sviluppo nel tempo del bambino: com’era, com’è, come probabilmente sarà, attraverso gli interventi più opportuni, in modo da preparare la strada migliore per lui e la sua famiglia.

Oltre a saper effettuare una diagnosi precisa evidenziando le cause  del problema, gli operatori dovranno saper proporre un valido programma di recupero e di stimolazione in cui siano evidenziate le tecniche, le metodologie e gli  strumenti  più opportuni. Questo programma, a sua volta, dovrà essere inserito in un progetto realistico a breve, medio e lungo termine che contempli non solo tutti gli aspetti della vita del minore ma anche tutti gli aspetti della vita relazionale della famiglia in cui questo bambino vive e cresce.

Infine, gli operatori devono saper coinvolgere altri specialisti del settore e altre forze sociali, attraverso un lavoro di rete nel territorio, collegando forze e realtà diverse per un grande o-biettivo comune.

Il training familiare.

Per lungo tempo la nostra società si è illusa di risolvere i problemi dell’handicap mediante  l’utilizzazione di tecnici (psicologi, insegnanti, pedagogisti, assistenti sociali, medici, terapisti della riabilitazione) trascurando l’apporto insostituibile della famiglia. Ciò ha provocato gravi conseguenze sia sul piano teorico: riguardo al significato dell’educazione o riabilitazione del bambino disabile; che pratico.

 

Dal punto di vista teorico ha portato ad una proliferazione di centri specializzati che hanno dato molti apporti scientifici su alcune specifiche tecniche riabilitative, ma pochi studi sull’attività educativa globale di questi bambini. Dall’altro la sottovalutazione degli apporti affettivo-relazionali dell’ambiente familiare e sociale ha vanificato e vanifica molto spesso la stessa attività educativa e riabilitativa.

É necessario pertanto che gli operatori prendano in carico non soltanto il bambino disabile, ma anche la sua famiglia inserita nell’ambiente sociale. Portatori di bisogni sono infatti non solo i minori ma anche i loro familiari che vivono questa realtà spesso con ansie, insicurezze, paure. É  fondamentale quindi, che gli operatori attuino nei confronti dei genitori un vero e proprio cammino in modo tale da costruire insieme a loro un progetto globale, realistico, ampio, sia a breve che a lungo termine con varie finalità.

•    Comprensione dei limiti ma anche delle possibilità del bambino.

     Ciò sarà possibile evidenziando le sue difficoltà attuali, ma anche le capacità e potenzialità; le sue necessità di base, comuni agli altri bambini ma anche i bisogni specifici.

•    Conoscenza dei servizi.

È importante che i genitori siano messi a conoscenza delle possibilità offerte da centri e istituti specialistici e dai tecnici e personale che si occupano di questi problemi; quindi di che cosa e chi possa essere utile, di che cosa e chi possa essere indifferente e di chi o di che cosa possa essere dannoso per il bambino.

•    Conoscenza delle tecniche.

Quali le tecniche e le metodologie  speciali su cui dovrebbe basarsi l’attività educativa o riabilitativa. Quali le basi su cui si fondano, quali sono i limiti e le possibilità di ognuna.

Quali gli strumenti utilizzabili, con i loro pregi, difetti, limiti, possibilità e difficoltà.

•    Conoscenza del percorso educativo.

Quale percorso educativo o riabilitativo si intende intraprendere. Evidenziando quali ostacoli si potrebbero presentare e come si pensa di poterli affrontare e superare.

•    Quali le prospettive future.

Ai genitori bisogna inoltre saper prospettare con realismo, ma anche con sano ottimismo, quali sono gli scenari presenti e quali quelli di un possibile futuro del figlio.

Gli obbiettivi di fondo del training familiare sono quindi numerosi:

•    si vuole da parte dei genitori una migliore accettazione del bambino e del suo handicap;

•    si cerca di suscitare nei genitori una maggiore fiducia in se stessi, nel loro figlio, nella rete familiare e sociale, negli organi istituzionali;

•    ci si propone di ottenere, nei genitori, una maggiore sicurezza nelle proprie capacità e un’acquisizione di atteggiamenti e comportamenti educativi più validi, equilibrati e sani;

•    ci si propone di instaurare una maggiore e più stabile intesa tra genitori e figlio, genitore e altro coniuge, genitori e altri familiari, genitori e operatori, genitori  e società. Lo scopo, in definitiva, è quello di migliorare i rapporti all’interno della famiglia del bambino, ma anche i rapporti tra questa, gli specialisti e l’ambiente sociale nel suo complesso. Ciò al fine di riuscire ad intraprendere rapporti non di lotta, ma di dialogo e collaborazione reciproca.

 

L’operatore dovrebbe cercare di proporre ai genitori, per il loro figlio, innanzitutto l’inserimento in un ambiente normale, in quanto ogni bambino ha bisogno di normali relazioni affettive ed amicali. Per tale motivo farà in modo che la sua famiglia si occupi di lui senza ansie eccessive, senza paure, ma in maniera serena, intelligente e continua. Le eccessive preoccupazioni comportano infatti stress, confusione, stanchezza, depressione con conseguenti atteggiamenti educativi errati.

 Un figlio disabile necessita inoltre di due genitori realistici che non sottovalutino i problemi ma neanche li accentuino; pertanto necessita di due genitori gioiosi, in quanto la gioia è fondamentale nello sviluppo di ogni essere umano. Egli ha bisogno di due genitori dialoganti e affettuosi tra loro che sappiano e possano vivere con serenità l'amore all'interno della coppia e con tutti gli altri figli.

I bambini disabili infatti, così come tutti i bambini, hanno bisogno di essere circondati da persone che si vogliano bene e che non riversino il loro bene soltanto su di loro; quindi necessitano di genitori che vogliano bene al loro figlio in modo fisiologico, senza morbosità, senza eccessi, senza una deleteria  iperprotettività.  É importante, infatti, che anche gli altri fratelli e familiari godano dell’apporto continuo e intenso di papà e mamma.

Il loro bambino, come tutti i bambini ha bisogno, inoltre, di vere amicizie, in cui vi sia scambio, affetto, dialogo, intesa, legame. Non sono amicizie vere quelle basate soltanto su sentimenti pietistici o per necessità di assistenza.

Anche per quanto riguarda la difficile prospettiva di una futura attività lavorativa, necessità di lavoro vero. Un lavoro è tale quando vi è scambio tra prestazione e compenso, possibilità di integrazione, utilità per i singoli e per la società del servizio offerto. Un lavoro è vero, inoltre, quando riesce a sviluppare tra i vari addetti e tra il lavoratore e il suo datore, dinamiche e scambi positivi per tutti.

 

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