
26 Mar Violenza e imitazione
Violenza e imitazione
Il fatto che l’aggressività, come molti comportamenti negativi, possa essere appresa dall’ambiente di vita, è noto da sempre: ‘Chi pratica con lo zoppo all’anno zoppica’. Quest’antico proverbio vuole chiaramente indicare la notevole influenza negativa che ispirano le persone che frequentiamo e con cui viviamo, sui nostri comportamenti relazionali e sociali. Soprattutto i bambini e gli adolescenti, ma anche gli adulti, tendono istintivamente ad imitare gli atteggiamenti ed i comportamenti che scorgono nel loro ambiente di vita. Pertanto, così come sono spinti a riprodurre i comportamenti positivi di accoglienza, rispetto, dialogo, dono e cura, allo stesso modo possono imitare, in ogni rapporto relazionale, anche i comportamenti di rifiuto, aggressività e violenza, dei quali sono spettatori.
Per i minori questa imitazione è più frequente ed incisiva quando i comportamenti negativi provengono da persone che hanno per loro una maggiore valenza affettiva ed educativa: ‘Vedo i miei genitori che litigano continuamente, pertanto è normale che i coniugi litighino tra loro’. ‘Mio padre si è comportato in maniera violenta e aggressiva con me o con mia madre; è normale e logico che anch’io faccia lo stesso, con i miei figli e con mia moglie’. ‘Mia madre gridava continuamente e anch’io ho l’abitudine di gridare per un nonnulla’. Alcuni di questi bambini, divenuti adulti, tenderanno a ripetere gli stessi comportamenti vissuti nell’infanzia, altri, per fortuna, facendo propri dei comportamenti positivi acquisiti da altri adulti conosciuti in altri ambienti, saranno in grado di criticare e rifiutare quei comportamenti ritenuti violenti, ingiusti e apportatori di sofferenza.
Inoltre, come dice Hacker [1]: ‘Il comportamento aggressivo, come molte altre forme comportamentistiche, ha la tendenza a estendersi e generalizzarsi; una volta appreso e collaudato esso viene esteso ad altre situazioni e qui applicato’. Ancor peggio se gli atteggiamenti aggressivi sono premiati. In questi casi anche dei comportamenti chiaramente abnormi assumono valenze positive[2].
Tuttavia, a questo riguardo, è bene rilevare che nel campo educativo quando l’aggressività nasce dalla sofferenza, dalle frustrazioni e dai traumi subìti, l’atteggiamento repressivo non ottiene i risultati voluti e sperati, poiché non si può insegnare a non essere aggressivi, utilizzando l’aggressività![3]
L’aggressività appresa dalla logica del gruppo.
Questo tipo di comportamento è frequente nei giovani e negli adolescenti i quali, inseriti in un ‘branco’, sono condizionati dalle regole presenti nel gruppo. Per cui hanno notevoli difficoltà a controllare i comportamenti e gli atteggiamenti aggressivi e violenti suggeriti dagli altri componenti, poiché questi comportamenti diventano una condizione necessaria per essere accettati dagli altri. Per tale motivo il giovane che aderisce a queste indicazioni si sente come deresponsabilizzato nelle decisioni personali e avverte il dovere di accettare le decisioni prese dal capo del branco o dalla maggioranza dei coetanei. D’altra parte, opporsi ai comportamenti, significherebbe opporsi a tutto il gruppo, non far più parte di questo e, di conseguenza, sentirsi isolati ed emarginati.
In questi casi il singolo individuo non agisce aggressivamente per frustrazione o per scaricare l’ansia eccessiva, ma per aderire a una logica di gruppo, che vede la violenza come necessaria e coerente con i propri bisogni d’integrazione e socialità. Come dicono Erikson e Erik, 2008, p.29),: ‘Un individuo si sente isolato dalle sorgenti della forza collettiva allorché egli, magari solo nel suo intimo, assume un qualsiasi ruolo che il suo gruppo ritiene particolarmente negativo’.
L’aggressività e la violenza appresa dai mass media e dai mezzi di comunicazione di massa.
Non sono da sottovalutare l’emulazione delle scene di violenza presenti nei mezzi di comunicazione di massa, nei film, nei video giochi e negli spettacoli come quelli di Wrestling. Per Hacker [4]: ‘Dappertutto i mezzi di comunicazione di massa influenzano la coscienza generale e con essa indirettamente ma in modo determinante anche l’inconscio, le opinioni, gli atteggiamenti e le azioni del pubblico’.
E ancora lo stesso autore (Hacker, 1971, p. 315):
‘L’adolescente americano medio è così ipersaturato dai tanti stimoli aggressivi trasmessi dai mezzi di comunicazione, che nessun modello specifico di aggressione gli sembra nuovo o degno di essere imitato; tuttavia questo ottundimento del singolo è ottenuto al prezzo del globale innalzamento del livello di aggressività’.
Per quanto riguarda i Wrestling, non può essere certamente indifferente, soprattutto per i minori, assistere a dei giganti super palestrati che lottano e si aggrediscono in maniera violenta e selvaggia, cercando in ogni modo di far del male all’avversario, fino a schiacciarlo a terra con il loro mastodontico corpo. Il fatto poi di sapere che in realtà, quella alla quale si assiste, è una finta lotta e che, almeno si spera, questi atleti, non si facciano veramente del male, non sempre viene percepito in maniera corretta, soprattutto dai più piccoli che assistono a questi spettacoli. In questi, la traccia emotiva che permane e predomina nel loro animo può purtroppo comportare il desiderio e il piacere di poterli in qualche modo imitare.
Per quanto riguarda i film e i telefilm, mentre fino a qualche decennio fa l’eroe aveva una funzione di difesa della nazione, dei più deboli e degli indifesi e pertanto, almeno nelle intenzioni degli autori, aveva un ruolo positivo, ormai da molti decenni lo stesso eroe partecipa in modo confuso e caotico al piacere di distruggere e aggredire tutto ciò che capita a tiro, utilizzando qualunque strumento di distruzione: bazuka, bombe, fuoco, auto e camion, spesso senza che si riesca a rintracciare, nelle sue azioni, un minimo di finalità costruttiva ed educativa. ‘La tendenza mimetica viene esaltata quando gli atti aggressivi mostrati sono rappresentati come eroici, promettenti e apportatori di successo, oppure quando gli spettatori sono espressamente invitati all’imitazione e vi vengono autorizzati’ (Hacker, 1971, p. 315).
Per tale motivo gli attuali eroi, ai quali bisognerebbe identificarsi e imitare, sono certamente senza paura, veloci, forti e sicuri di sé, ma sono anche dei balordi confusi e violenti, senza pietà, ma anche senza alcuna disponibilità all’ascolto e alla comprensione dell’altro.
Ancora più grave è la stimolo all’emulazione che l’individuo, soprattutto in età evolutiva, può ricevere da parte dei contenuti dei videogiochi più comunemente utilizzati e diffusi. Molti di questi si basano essenzialmente su una continua, ripetitiva, perenne lotta, utilizzando varie armi e strategie, contro alieni e nemici immaginari, mostri da distruggere, prima di essere distrutti, da uccidere, prima di essere uccisi; ma anche lotta nei confronti di malcapitati, innocui passanti. D’altra parte molto spesso, in questi giochi, uccidere quanto più possibile dei fantomatici nemici fa ‘vincere’ una partita o fa andare ad un livello successivo e pertanto ‘premia’. Questi personaggi suggeriscono e nel tempo convincono il piccolo utilizzatore, che l’aggredire e il distruggere sono atteggiamenti e comportamenti non solo ‘normali’ ma anche utili, piacevoli e divertenti.
Si dirà che la violenza presente nei film, nella Tv o nei video giochi è ‘finta, non è vera, è solo spettacolo ‘ tuttavia ‘L’effetto imitativo è uguale, sia che le scene di violenza siano prodotte negli studi, sia che vengano riprese dalla vita reale (anche se questa differenza fosse riconoscibile). Banddura e in seguito Berkowitz hanno dimostrato con estesi esperimenti su gruppi di bambini di diverse età che l’effetto di accrescimento dell’aggressività esercitato da esempi d’aggressione è sostanzialmente lo stesso, a prescindere dal fatto che l’aggressione rappresentata e successivamente imitata si sia svolta originariamente nella vita reale, in un film o in un cartone animato'(Hacker, 1971, p. 315).
Poiché in queste immagini e in questi giochi non c’è pietà, tenerezza, comprensione, giustizia, ma soprattutto non ci sono sfumature, l’uso di questi strumenti può condurre ad atteggiamenti reattivi e aggressivi nei confronti degli altri, giacché riduce le inibizioni e non educa alla necessità di ricercare e trovare soluzioni alternative ai problemi e ai conflitti tra esseri umani, utilizzando il dialogo, la mediazione e l’accordo tra le parti.
L’altra conseguenza insita in questi spettacoli, che è forse ancora peggiore di quella precedente, è che nell’animo e nella mente dei bambini s’insinua e si sviluppa l’idea che nel mondo nel quale viviamo allignano una serie infinita di nemici che subdolamente possono circondarci, assalirci e farci del male, per cui è necessario vivere costantemente sulla difensiva, sempre pronti a prendere le armi più? efficaci per proteggerci o attaccare.
Quest’inquinamento mediatico è tanto più grave quanto maggiore è il numero dei messaggi, quanto minore è l’età, quanto più il soggetto è psicologicamente fragile, suggestionabile e insicuro, ma anche quanto maggiore è l’interattività.
Tuttavia, da parte della società e dei legislatori è difficile accettare e soprattutto porre rimedio al fatto incontestabile che le parole e le immagini violente ascoltate e viste, ma anche virtualmente eseguite migliaia di volte dai minori, dagli adolescenti e dagli adulti, possano lasciare delle tracce indelebili nell’animo di chi le utilizza. Si preferisce allora per motivi economici e ideologici far credere che ciò non sia vero e non sia possibile, al fine di coprire una realtà difficile da accogliere; giacché accettare ciò significherebbe modificare in maniera sostanziale la presunta neutralità di questi strumenti e pertanto intervenire non solo sul loro uso ma anche e soprattutto sulla loro produzione.
Tra l’altro oggi buona parte dell’educazione e della formazione dei minori, a causa di genitori sempre più impegnati, lontani, assenti e distratti, è diventata di tipo mediatico. E se i media ma anche internet sono ricchi di contenuti violenti, i risultati non possono che essere deleteri sul piano del rispetto dell’integrità, dignità e sacralità dell’animo, del corpo e della vita dell’altro. Ciò è evidente in molti rapporti sociali. Le assemblee scolastiche o di condominio, le discussioni parlamentari, Facebook, gli incontri di calcio e i dibattiti televisivi, ovunque vi sia la minima possibilità di confrontarsi con idee diverse, sono spesso utilizzati per scaricare sugli altri, mediante la violenza verbale, la propria rabbia e le proprie frustrazioni. Per Dacquino (1994, p. 304): ‘Viviamo in un clima di violenza e sadismo verbale, alimentato dall’abitudine di polemizzare accanitamente anche per le cose più futili. Siamo sempre sul piede di guerra oppure discutiamo con voce dura, stridula, alta, pur sapendo che urlare è la reazione di chi ha torto o è insicuro’.
L’aggressività può essere appresa in famiglia da stili educativi erronei.
Vi sono degli stili educativi nei quali sono trasmessi i valori dell’accoglienza, della fratellanza, dell’amore, dell’accettazione e del dono, ma vi sono purtroppo anche degli stili educativi nei quali sono trasmessi disvalori: come la violenza, la prepotenza, la protervia e lo sfruttamento dell’altro ai propri fini. In questi casi è costantemente sottolineato l’errato principio che bisogna rispondere ‘occhio per occhio e dente per dente’ a quanto subìto e che ‘non bisogna essere pecore ma lupi’ pronti ad azzannare chi ci ha fatto o potrebbe farci del male o potrebbe sottrarci qualcosa di nostro. Questi stili educativi sollecitano ad accettare e utilizzare l’uso della forza e della violenza in molte, troppe occasioni senza che ciò sia strettamente necessario e utile.
Tratto dal libro di Emidio Tribulato: ‘Ti odio!’- Conflitto e aggressività e violenza tra i sessi’.
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[1] Hacker F., (1971), Aggressività e violenza nel mondo moderno, Edizioni il Formichiere, Milano, p. 315.
[2] Andreoli, V. (1995), La violenza – dentro di noi, attorno a noi, Fabbri editore Corriere della sera, Milano, p. 71.
[3] Hacker F., (1971), Aggressività e violenza nel mondo moderno, Edizioni il Formichiere, Milano, p. 171.
[4] Hacker F., (1971), Aggressività e violenza nel mondo moderno, Edizioni il Formichiere, Milano, p. 317